Massimo Bottura, il libro: guardare la tradizione a dieci chilomentri di distanza per poterla rivivere senza fare musei
Non è pop come Gualtiero Marchesi, non è neanche televisivo come Vissani o sexy come Cracco. Ma è sicuramente il cuoco italiano più conosciuto al mondo che il nostro paese può vantare in questo momento. Perché nessuno come lui è riuscito sinora a tradurre le migliori tradizioni della provincia in un linguaggio comprensibile ovunque smarcandosi dalle immagini oleografiche degli spaghetti, della pizza, del cappuccino, del parmigiano e della mozzarella.
Massimo Bottura in meno di vent’anni, aprì l’Osteria La Francescana a via Stella 22 nel 1995, è diventato il cuoco di riferimento per chi vuole entrare nella cultura gastronomica italiana in chiave moderna.
Una straordinaria avventura umana vissuta insieme all’inseparabile Peppe Palmieri, sommelier e grandissimo maestro di sala come pochi al mondo, e alla moglie americana, Lara Gilmore che gli consente di guardare l’Atlantico da entrambe le sponde, un vantaggio decisivo per essere il primo sulla Guida Espresso diretta da Enzo Vizzari, avere le tre stelle dalla Michelin e essere terzo nella Fifty Best della san Pellegrino. Come dire, nessuno come lui unisce critica italiana, colonialismo francese e imperialismo anglosassone.
Tutto questo è riassunto in un libro dal titolo emblematico: «Vieni in Itaia con me» (Edizioni L’Ippocampo) che è anche il nome di un suo menu degustazione creativo che ti porta dalla Sicilia alle Alpi attraverso la rielaborazione di prodotti e ricette regalando sensazioni uniche al cliente e all’appassionato.
«Ricetta dopo ricetta – scrive nella prefezione – abbiamo cercato di portare nel futuro il meglio del passato. Abbiamo sublimato le nostre tradizioni gastronomiche sino a farle scomparire constatando però – con nostra grande sorpresa – che la distorsione ha sempre come esito un ritorno all’ordine».
Diciamo subito che non è un libro di ricette come se ne vedono tanti e che non gioca neanche con la sua immagine in copertina, che invece somiglia molto a ottocenteschi testi giuridici e medici usati per studiare all’Università. Una copertina austera che, come uno scrigno, è una esplosione di racconti, aneddoti, suggestioni, considerazioni, ricordi illustrati dalle foto di Carlo Benvenuto e Stefano Graziani. C’è tanta arte, la grande passione che Massimo condivide con Lara.
Il segreto del suo impegno, maturato poi nelle cucine più significative di quest’ultimo trentennio come Ferran Adrià e Alain Decasse, è però rivelato subito, proprio nelle prime righe della sua introduzione: «Diciassette anni fa un gallerista di Nome Emilio Mazzoli mi raccontò un aneddoto che ha cambiato il mio modo di concepire la cucina italiana. Un importante collezionista aveva chiesto all’artista Gino De Dominicis di fargli un ritratto. Dopo mesi di corteggiamento, De Dominicis finalmente accettò. Il collezionista andò a posare per il ritratto ma l’artista non lo degnò nemmeno di uno sguardo: si faceva gli affari suoi, leggeva e telefonava. Dopo un po’ il collezionista cominciò a innervosirsi. Allora De Dominicis prese un pennello e disegnò un punto al centro della tela. «Ecco, il suo ritratto è pronto». Lo sguardo del collezionista andò dalla tela all’artista e questi gli disse: è lei, visto da dieci chilometri di distanza. La storia dell’Osteria Francescana inizia da qui».
Viene subito da dire che per godere in pieno questo libro ha vantaggio chi è stato a mangiare da Bottura. Rivive in backstage alcune sue ricette mitiche che lo hanno reso famoso come «Le cinque stagionature di Parmigiano in diverse consistenze e temperature» o i «tortellini che camminano sul brodo», «l’omaggio a Monk», il «croccantino di foie gras», sino alle ultime «Da Modena a Mirandola», «Un’anguilla che risale il Po», «Mont Blanc».
Dunque, a differenza dei libri di ricette, non è un oggetto da usare, ma da leggere e da vedere. Soprattutto per capire dove va quella che Enzo Vizzari definisce la Nuova Cucina Italiana. Che non è l’importazione di tecniche e modelli esteri come è avvenuto con Marchesi, e neanche il ripensamento delle combinazioni sui prodotti come ha fatto Vissani. È la fusione a cui arriva un esponente del baby boom italiano con il passaggio dalla cultura rurale a quella urbana, dalla dimensione provinciale a quella prima nazionale e poi globalizzante: «Cucinare è il solo modo che conosco per consegnare al futuro il meglio del passato. Messe sotto vetro, le tradizioni ammuffiscono». Proprio a Napoli e in Campania ne abbiamo un esempio, con la musealizzazione della cucina dei monzù e l’affermazione di un nuovo stile in Penisola Sorrentina al passo con i tempi grazie alle materie di mare e di orto e al grasso, l’olio d’oliva, oltre che per le tecniche moderne.
Translando questo discorso su scala nazionale Massimo diventa così il cuoco italiano di riferimento per tutta l’alta gastronomia pur restando se stesso e con i piedi ben piantati nelle radici. Come la Ferrari, intimamente emiliana e simbolo al tempo stesso dell’Italia. E questo libro ci aiuta a capire come questo sia possibile grazie ad una precondizone: non si è grandi se non si studia a fondo, ma soprattutto senza un approccio globale, umanistico, capace di inquadrare la tecnica più eccelsa nello spazio e nel tempo in cui si esercita.
3 Commenti
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Grazie per avermi offerto una valida interpretazione di quella copertina così fuori dal tempo, così fuori moda. Come il ritratto ridotto a un punto, così quella copertina evoca necessità di curiosità e conoscenza, di umiltà e senso della storia. Citando (e mi scuso) un mio pezzo del 2010, ancora oggi si vedono casalinghe di Voghera che catechizzano e arringano dal basso del loro falso e puro anticonformismo. Alcune indossano passamontagna neri e dicono di difenderci da questo mondo di corrotti. Perché loro,al contrario di Bottura, vivono di punti esclamativi e nemmeno sanno cosa sia la curiosità.
MI dispiace dissentire con Massimo Bottura ma, a mio modesto avviso, i musei del XXI secolo non sono più solo istituti di conservazione del patrimonio culturale e della memoria storica. Hanno una dimensione sempre più sociale e sono servizi pubblici al servizio delle comunità, producono e comunicano saperi, cultura, creatività. Sono agenzie per la mediazione culturale, per il dialogo interculturale, per la coesione sociale. Aprono le menti e aiutano a comunicare con il mondo. Danno nuova linfa alle identità e alle radici culturali; creano senso di appartenenza; potenziano le attrattive dei territori; migliorano la qualità della vita di quanti vi vivono e lavorano.
Seppure con le sue caratteristiche e specificità, anche la gastronomia è un’arte, pertanto il recupero di prodotti e fatti alimentari tradizionali (quindi anche le ricette), legati alla storia della nostra terra di cui i Monzù fanno parte, sono degni di essere conosciuti e sviluppati, anche attraverso un’opportuna critica, in un giacimento gastronomico di inestimabile valore da tutelare e preservare, non mettendolo sotto vetro ad ammuffire, ma realizzando un museo a cielo aperto che diffonda, nel mondo, i profumi e i sapori di questa nobile arte culinaria.
Con infinita modestia, domando al grande chef Bottura: “Mi scusi, ma immagino che un uomo come lei, colto e con intelligenza speculativa, amerà certamente recarsi in un qualsivoglia museo, mai visitato prima, allo scopo di scoprire un’opera di rimarchevole fattura, che può anche arricchire le sue ispirazioni. Ebbene, non credo che le salti in mente di chiedere di rinchiudere l’opera, anche di vecchia data e di superato stile, in magazzino ad ammuffire.
Da uomo sensibile ringrazierà la sorte di aver potuto ammirare quell’opera, che magari la sorte medesima non le aveva dato la possibilità di conoscerla prima. Ecco, far conoscere al pubblico una sublime (anche se dei tempi passati) cucina dimenticata, tenerla in vita con un commendevole sforzo, talché la si possa nuovamente gustare, ammirare ed anche da essa prender spunto per creare ricette innovative e gustose, non mi sembra meriti l’aggettivo di ammuffita. Per concludere, quando un grande artista contemporaneo ha creato un dipinto, una scultura, un’opera musicale, prendendo spunto da opere sublimi del passato, non si sarà detto che quelle opere erano da lasciar perdere perché profumavano di muffa”