Dalla fame all’inappetenza, appunti per una parabola del cinema italiano
Come annunciato, inizia con questo articolo la rubrica Cinema e Cibo
di Roberto Curti
«Non soffrirai più lo freddo, né calura, né fame, né sete, né bastonate, né spaventi, ma uno cielo sempre a bello e l’uccelletti sui rami degli arbori in fiore, e l’agnoli che ti daranno le gran pagnocche di pane, e cacio, e vino, e latte in abundanzia, e ti dicono “Vuoi, vecchio? Piglia! Ancora vuoi? Piglia! Mangia, bevi, vecchio!, fatti sazio, e dormi… vecchio!… dormi… dormi…”» Vittorio Gassman a Carlo Pisacane, L’armata Brancaleone
La fame è un filo rosso che attraversa il cinema italiano. Ma al di là del luccichio negli occhi del piccolo Bruno (Enzo Staiola) alle prese con una filante mozzarella in carrozza in Ladri di biciclette, o della veemenza con cui Nando Moriconi (Alberto Sordi) aggredisce il piatto di pasta fumante in Un americano a Roma, a spiccare sono soprattutto i morsi di una fame atavica, plurisecolare, insaziabile, che neppure le commedie del periodo fascista, spesso ambientate in un’esotica Budapest di fantasia dove le tavole erano sempre imbandite, riuscivano a celare. E che rinasce prepotente dalle ceneri del dopoguerra.
È la commedia a svelare questa smisurata voracità. Quella che in Fifa e arena spinge Totò a prepararsi un improvvisato sandwich con una spugna, dentifricio, sapone e crema da barba; e che non abbandona per un attimo il venerando Capannelle (Carlo Pisacane) in I soliti ignoti, fino al celebre spuntino notturno a base di pasta e fagioli fredda degli scalcagnati aspiranti ladri. Con Totò, la fame, elemento primario nella comicità dell’attore partenopeo, assume spesso forme surreali, dalla sequenza di Miseria e nobiltà in cui gli spaghetti, afferrati voracemente a mani nude, preludono a una tarantella ballata sul tavolo di cucina, alla scorpacciata di maggiorana/marijuana che fa impazzire il protagonista in Che fine ha fatto Totò Baby?. L’incontro con Pasolini, che sul tema aveva creato un capolavoro assoluto come La ricotta, sarà emblematico: Uccellacci e uccellini si conclude con un fiero pasto di cui è vittima il corvo marxista, ucciso e mangiato dai due fraticelli Totò e Ninetto Davoli, ma contiene anche uno dei momenti più poetici del cinema pasoliniano, quello della madre che costringe i figli a dormire dicendo loro che è ancora notte, perché non ha di che nutrirli.
Con il Boom lo stomaco si riempie, ma la fame rimane: di denaro, sesso, successo, esperienze, tutto ad apparente portata di mano. Gli amici sono a mangiare in spiaggia a Viareggio? Che problema c’è? Si parte da Roma e via, come fanno Bruno Cortona (Vittorio Gassman) e Roberto (Jean-Louis Trintignant) in Il sorpasso, perché, come ama dire Bruno, «è sempre il caso». Abbrancare, afferrare, addentare, e via. Dopo tutto quel che s’è patito, gli occhi sono più grandi della bocca. Ma non è solo la commedia a farsene spia. La fame è qualcosa di più, che avvolge il cinema italiano popolare tutto, al di là delle storie narrate sullo schermo. È, innanzitutto, la necessità che accompagna la nascita di un apparato produttivo gravitante attorno a Cinecittà, che sfama intere famiglie di artigiani, attrezzisti e generici i quali si guadagnano il quotidiano cestino a suon di apparizioni mordi-e-fuggi, di modo che è frequente rivedere gli stessi volti, le medesime ghigne patibolari da film a film.
Il cinema popolare segue l’aurea massima della cucina della nonna: non si butta via niente, tutto si ricicla. Scenografie, costumi, spezzoni di girato vengono riproposti allo sfinimento, gli avanzi del giorno prima finiscono sul menu di quello successivo. L’era dei «peplum» nati sulla scia dei colossi statunitensi è emblematica, con i medesimi calzari ed elmi, le quattro colonne di polistirolo e cartapesta da far crollare alla fine, persino sequenze di battaglia che tornano da una pellicola all’altra. Film sfornati come pagnotte, e moltiplicati come pani e pesci, per un mercato di profondità (seconde e terze visioni, sale parrocchiali) che tutto inghiotte e consuma, come un pozzo senza fondo. Ed è proverbiale l’aneddoto che riguarda Amerigo Anton alias Tanio Boccia, regista di peplum come Maciste alla corte dello Zar, che al momento della pausa pranzo apostrofa l’addetto al catering con un perentorio «Io so’ er regista, per me du‘ cestini».
La fame aguzza l’ingegno. Ed è inevitabilmente al cibo che si fa riferimento quando è il momento di inventare effetti speciali. È il caso di Mario Bava: per realizzare l’ameboide creatura di Caltiki il mostro immortale di Riccardo Freda, Bava compra chili e chili di trippa, che, opportunamente illuminata e fatta interagire con modellini, diventa un convincente, gigantesco blob antropofago (con l’effetto collaterale, una volta andata a male sotto le roventi luci dei riflettori, di intossicare mezza troupe); in La maschera del demonio, Bava mette in scena la resurrezione della strega Asa (Barbara Steele), facendo spuntare nelle orbite vuote di un manichino di cera due bulbi oculari che in realtà sono uova sode; e i crateri di lava fumante di un pianeta alieno nel fantascientifico Terrore nello spazio sono comunissima polenta. Gli artigiani degli effetti speciali nel nostro cinema italiano, da Carlo Rambaldi in giù, seguiranno il suo esempio, facendo tappa dal macellaio e rifornendosi di frattaglie e coratelle, pajata e cotenne di maiale, per creare ributtanti ferite e sbudellamenti.
L’atto vitale del nutrimento si fa metafora di sesso e possesso – le tre mele bacate ricomposte in un unico frutto da Emerenziano Paronzini (Ugo Tognazzi) al desco delle sorelle Tettamanzi in Venga a prendere il caffè da noi di Lattuada –, di inquietudine esistenziale (lo spuntino notturno a base di Nutella di Nanni Moretti in Bianca) e si intreccia inevitabilmente con il suo opposto: la morte, la dissipazione, l’annullamento. Al di là del celeberrimo cupio dissolvi di La grande bouffe e del Satyricon felliniano, gli esempi sono numerosi e sorprendentemente eterogenei: il sontuoso pranzo che Marina di Malombra (Isa Miranda) fa apparecchiare per Corrado Silla (Andrea Checchi) prima di ucciderlo nel finale di Malombra di Mario Soldati; la chiusa di Il conte Ugolino, dove pur mantenendo formalmente l’ambiguità del celebre verso dantesco, Riccardo Freda sposa in toto l’ipotesi del cannibalismo; lo sguardo malvagio di Sentenza (Lee Van Cleef) mentre si siede alla tavola dell’uomo che ucciderà, appropriandosi del suo frugale pasto e affondando vorace il cucchiaio nel piatto di zuppa, atto di spregio anche più disturbante dell’omicidio a sangue freddo che seguirà, in Il buono, il brutto, il cattivo; e la torta al topicida che Cleopatra, l’adolescente dagli occhi tristi figlia del sottoproletario Peppino (Alberto Sordi), consegna in dono all’anziana miliardaria americana Bette Davis in partenza per il proprio paese, nel finale di Lo scopone scientifico di Luigi Comencini. Il quale ebbe a dichiarare che, a suo modo di vedere, la vecchia non avrebbe mai assaggiato quella torta: troppa la differenza di classe, i ricchi non si siedono allo stesso tavolo dei poveri. O, se lo fanno, è per umiliarli e corromperli, come nell’allucinante banchetto coprofago del Salò pasoliniano, o nella sequenza della “caccia al tesoro” coi supplì farciti di sassi (ma in uno c’è uno smeraldo) offerti ai poveri dalla contessa Mafalda (Lila Kedrova) in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno di Luciano Salce.
È anche questo – la fame come specchio e strumento per leggere il paese, dal dopoguerra al Boom, con gli strumenti del riso e dello sberleffo, del paradosso e dell’orrore – che è andato smarrito in molto cinema italiano odierno, sfiancato da una crisi durata decenni che ne ha sfibrato l’impianto produttivo lasciandolo in balia della televisione, e spesso diviso tra languori da tinello e sciamannati Natali in amene località turistiche. In parallelo al proliferare di programmi tv a base di sfide e prove del cuoco, in questi ultimi anni sceneggiatori e registi hanno danno spazio al cibo e a personaggi di chef, gourmet e artigiani del gusto, da Luca Zingaretti che fa il verso a Filippo La Mantia in Tutte le donne della mia vita ad Ambra Angiolini in Immaturi, senza dimenticare i pasticceri di Ozpetek, il maestro cioccolataio Neri Marcoré di Lezioni di cioccolato, il partner gourmet di Luca Argentero in Diverso da chi? e il “cuoco contadino” di Io sono l’amore, con le creazioni di Cracco in bella mostra.
Eppure, salvo eccezioni – penso al cantante Tony Pisapia (Toni Servillo) e alle sue spigole in L’uomo in più di Paolo Sorrentino, o all’orafo Vittorio (Vitaliano Trevisan) che, ossessionato dalla magrezza, plasma il corpo dell’amante (Michela Cescon) costringendola a una dieta disumana in Primo amore di Matteo Garrone – il più delle volte il cibo non rappresenta né vuole significare altro che quanto c’è nel piatto. E si fa paradigma di un cinema sazio e inappetente, che ha perduto la voglia di addentare a fondo la realtà.
7 Commenti
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…..cinema sazio ed inappetente che, a sua volta, esprime i valori di una società decadente.Complimenti per l’articolo che è molto interessante.
Quanti ricordi che mi hai stimolato.. quasi tutti film visti e rivisti e che, solo per il fatto di averne sentito riparlare, vorrei vedere di nuovo.
Mi permetto di citare anche Scola che sulla convivialità a tavola, più che di cibo, ha creato meraviglie.
OT Ma ci pensi che Capannelle aveva solo 67 anni quando uscì I soliti ignoti ? sembrava un ottantenne !
l’uomo in più e primo amore stupendi
Io ho iniziato a frequentare il cibo con una situazione qui tralasciata, forse perche’ appartenente alla tv e non al cinema: buazzelli con il suo nero wolfe e i manicaretti ante- nouvelle cuisine: telefilm di una chiccheria unica. Interessante pezzo, Roberto.
Il gioco è stimolante, anche per la capacità sintetica nel volo attraverso la storia del cinema italiano. Mi viene in mente una lunga scena che accomuna il tema della fame e del sesso (che tra l’altro si fanno spesso compagnia: si fa sesso perché non si ha da mangiare, si ha fame di sesso, la sensualità del cibo, fino agli abusati cibi afrodisiaci..): si tratta della sequenza di Patsy (?) e la pasta alla panna con ciligia da regalare alla ragazza “nave scuola” in C’era una volta in America di Sergio Leone. Nel caso del ragazzino la fame , la fanciullezza, la gola hanno il sopravvento rispetto all’attesa, quasi una certezza rispetto all’ignoto della prima volta. Alla fine non liquiderei le torte della Finestra di Fronte di Ozpetek né i piatti di Io sono l’amore, perché raccontano della speranza e della libera autodeterminazione le prime, e del tradimento non solo sociale e tantomeno di affetto uomo donna, ma tra madre e figlio in una parabola di disfacimento abissale che fa da contrasto alla perfezione dei piatti cracchiani. Ho scritto troppo, ma lo spunto è troppo divertente e interessante.
Complimenti!! Molto interessante.
Grazie a tutti per i commenti. @Maffi: si parlerà anche di tv, oltre al grande Buazzelli mi viene in mente il bellissimo finale di “Il giudice e il suo boia”, ripreso pari pari dal romanzo, in cui Paolo Stoppa si concede una rabbiosa e disperata abbuffata davanti all’assassino appena smascherato. @Scarpato: ci sarà modo di approfondire anche il discorso su Ozpetek… anche se, dovendo scegliere, preferisco di gran lunga il pasticciere trotzkista di Moretti :)