Mangiare sostenibile lontano da casa. Difficile ma non impossibile
Agricoltura, spesa consapevole, attenzione alle piccole produzioni, qualità e solidarietà. I più convinti di noi li praticano ogni giorno, difficoltà permettendo. Il nostro contesto quotidiano ci offre riferimenti certi sufficienti per indirizzare correttamente coscienza e azioni. Staccati i piedi dalla terra che ci appartiene, però, a volte si finisce risucchiati da una certa esaltazione che ci spinge a mettere da parte i buoni intendimenti e a trasformarci in animali consumistici ad alto impatto. Le vacanze costituiscono un terreno fertilissimo per questi comportamenti.
L’italiano in vacanza lo riconoscono tutti: cronografo ultimo grido sul polso, lui; e orecchini vistosi, lei; bandana annodata dietro la testa per passeggiare sulla spiaggia; zaino Invicta per le escursioni e costosi occhiali inforcati permanentemente sul naso. Sono turisti amati: non fanno tendenzialmente discussioni sui prezzi per il solo gusto di tirarli giù; sono socievoli e compassionevoli. Li si conquista con qualche parolina in italiano e, soprattutto, con il buon cibo; argomento , rispetto al quale, mostrano, senza ritegno, un’autentica ossessione.
Natale ed Epifania offrono un’imperdibile occasione annuale di fuga al caldo. Qui l’italiano tira fuori tutta la voglia di sole e mare, di star disteso immobile come una lucertola per ore, dedicarsi a una moderata attività sportiva e cenare a lume di candela sulla spiaggia. Una certa attitudine al lusso e al relax totale sono propri del popolo. Il neocolonialismo turistico all’italiana consegna ai paesi in ritardo di sviluppo del mondo splendidi resort, per la gran parte, bisogna dirlo, degnamente integrati nel paesaggio del luogo. Il buon gusto nella scelta di materiali e allestimenti è tendenzialmente indiscusso.
Le sale ristoranti sono spesso incantevoli, molto di più di quanto non siano in patria. Gli architetti tricolore riescono a tirar fuori il meglio di sé quando non hanno i piedi nello Stivale. Godono, certo, di un po’ più di libertà, tenuto conto dell’atteggiamento ultraconservativo che caratterizza la madrepatria. Lo stesso che fa scappare i creativi del mondialmente riconosciuto Italian Style all’estero per lavorare. Nonostante ciò, queste strutture rimangono a sé stanti, bei paradisi artificiali dove si balla, ride e schiamazza per alcuni mesi l’anno e, poi semideserti per il resto del tempo. Attivano un flusso di denaro che interessa la popolazione locale solo marginalmente, principalmente per quanto concerne manovalanza e personale a basso costo, ma non contribuiscono sostanzialmente alla sua crescita imprenditoriale né mettono al sicuro dalle crisi cicliche in mancanza di una strategia di lungo termine tesa ad attrarre turisti.
Rappresentano, viceversa, quasi sempre una temibile concorrenza sia perché strappano braccia ad altri lavori tradizionali, come la campagna; sia perchè sono astronavi full service nei confronti dei quali il ristorantino o piccolo baretto accanto, non ha chance di sorta. Al più diventa una curiosità dove, se va bene, si fa una capatina una sera pervasi dall’eccitazione della avventura. Una serie di elementi, poi, potranno motivare la scelta di restare al proprio ristorante di lusso: gusto e varietà delle preparazioni più in linea con le proprie aspettative, presentazione dei piatti più ricca, un servizio più celere e una scelta decisamente più ampia, anche di bevande. La solidarietà e l’attenzione al piccolo si esaurisce in nome di una calice di vino bianco italiano alla giusta temperatura e di un piatto di pasta alla bolognese. Se poi, in uno di questi locali, i bambini la finiscono di frignare di fronte alla anelata cotoletta alla milanese con le patatine, il gioco è fatto: il ristorantino local managed resta consegnato alla storia come una simpatica fuga esotica non praticabile. A questo si aggiunge che i turisti moderatamente curiosi e i più pigri hanno l’opportunità anche semplicemente di usufruire dell’offerta che i grandi resort, saggiamente, fanno dei piatti locali che, anche se riveduti e corretti, sono in carta e consentono un tuffo senza rischi dei sapori locali.
Dammi un’opportunità e un piccolo gruzzolo e ti faccio vedere anche io, piccolo ristoratore
Jeff e Magaret sono due zanzibarini. A Kendwa, località nel nord ovest di questa isola incantevole che è stata il centro del commercio di spezie e schiavi per tutto il XIX secolo, Le Toits de Palm è un piccolo resort costituito da sei alloggi e un ristorantino semplice sulla spiaggia. Quello accanto, il White Sand Beach, è poco più organizzato e curato. Li abbiamo scelti per la nostra vacanza famliare perché sono della dimensione che cerchiamo: sostenibile. In fondo alla ampia striscia di sabbia bianca di Kendwa, la Gemma dell’Est mostra un paio di fantastiche capanne su palafitte che ospitano il ristorante della struttura cinque stelle del gruppo Planhotel.
Del posto so che, su una canoa, ho, proprio lì fuori, avvistato un delfino e che, a Capodanno, da questo lato della spiaggia sono state sparate nel blu, per interminabili ore, le solite canzoni di Loredana Bertè e si è ballato al ritmo de La Macarena. La prima volta che, con la famiglia di mio marito (in totale una ventina di persone), abbiamo ordinato bevande e cena a Le Toits de Palm, Margaret ha raccolto con garbo le ordinazioni, sorridendo. Anche quando ci ha portato le birre – Kilimangiaro, Safari (delle lager di produzione locale) – sorrideva. Imbevibili: servite alla temperatura di 35 gradi buoni. E sorrideva sempre, anche dopo quattro ore, di fronte al nostro ennesimo sollecito perché ci servissero e potessimo iniziare a mangiare qualcosa.
L’aperitivo non è contemplato nel menù. Il piatto tradizionale è l’ugali, una sorta di appiccicosa polenta di farina di mais (fino al XII secolo, prima dell’arrivo dei colonizzatori era di sorgo o miglio) e manioca che si appallottola con le mani e bagna salse contorni a base di pesce, carne o verdure. La guida che ho acquistato, avvisa che non ha particolare sapore e che viene a noia presto. In genere si sceglie un piatto unico: il pescato del giorno (red snapper, tuna o king fish), calamari o polipo e pollo, alternativamente in salsa di curry, cocco o masala. In alternativa alla griglia. Sempre serviti con riso bianco o patatine fritte. Il contorno può essere di platano verde e di verdure (servite anche a zuppa), ma bene o male la preparazione gioca sempre sulle suddette salse. Ciò che fa la differenza è l’aromatizzazione. Zanzibar è il primo produttore al mondo di chiodi di garofano.
Le spezie (cannella o mdalasini, cardamomo on hiliki, coriandolo o gilgilani, di cumino o uzile, noce moscata o kungu manga, peperoncino rosso o pilipili hoho e il pepe nero o pilipili manga), coltivate nelle Shamba (fattorie), sono il suo fiore all’occhiello.
A colazione: succo di frutto della passione o mango (l’isola ne ha decine di varietà); tagliata di frutta fresca con anguria, ananas e mango; uova in omelette o strapazzate e pane tostato. Un breakfast incantevolmente semplice, consumato con i piedi nella sabbia. Il servizio e un certo modo rilassato della popolazione di affrontare la clientela europea che se ne lamenta, restano il problema. Al ristorantino accanto al mega resort i ritmi sono anche loro “locali”.
Il ghiaccio si potrebbe acquistare facilmente a qualche chilometro più a sud, ma occorre rimetterci la benzina e investire un po’ di soldi per acquistarlo, senza essere certi che si avranno sufficienti clienti assetati per recuperare i soldi. Le porzioni si allargano e si rimpiccioliscono a seconda del numero delle ordinazioni. Stone Town, il bel capoluogo di Zanzibar che alterna edifici del periodo vittoriano, sontuose dimore dei sultani e case imbiancate di calce in puro stile arabo, è a un’ora e mezza. Si fa la spesa periodicamente di alcuni prodotti perché andarci troppo spesso è antieconomico. Per il resto si aspetta che da un dhow, l’imbarcazione tradizionale tanzaniana, qualcuno porti del tonno o dell’altro pesce fresco. Quando il locale è così piccolo, non c’è immobilizzo di capitali, insomma. Non ce lo si può permettere.
Anche perché con il caldo che fa, tutto deperisce alla svelta importando una perdita netta. Ma per il cenone dell’ultimo dell’anno si è fatto un patto con Jeff e Margaret. Accorderemo loro nuova fiducia: abbiamo in mente una serata con un ricco menù, con tanto di vino e birre fredde. Lo definiamo insieme, loro facciano il prezzo. E’ questione di training, pensiamo. Qualcuno della famiglia trascorre tutta la mattina a concordare le pietanze, a raccomandarsi che non manchi nulla e che, soprattutto, alle 20,00 sia tutto pronto. Ci chiedono 20 dollari a persona e sorridendo ci invitano a confidare che tutto andrà per il meglio.
Nessuna esasperante attesa. Hanno capito che ci teniamo molto, sembra. Il pomeriggio trascorre a curiosare tra le bancarelle dei Masai (una popolazione di agricoltori e allevatori transumanti che abita gli altopiani al confine tra Kenia e Tanzania) vestiti con il loro tipici panni colorati annodati in vita e ornati di cavigliere e polsiere di corallini bianchi, e far due chiacchiere in italiano con Guido, Rambo e Nello, alcuni dei zanzibarini che, sulla spiaggia, hanno i propri “show room” di pittura tinga tinga, dai tipici soggetti animali o vegetali. Li dipingono di continuo e li lasciano eternamente al sole a seccarsi. Rappresentano i Masai in assetto da caccia, con la lancia e la mazza con quale devono colpire il loro primo leone della vita per diventare “uomini”, ma anche tutti gli elefanti, ippopotami, uccelli che abitano i fantastici Parchi nazionali di Ngorongoro e Serengeti, decisamennte le riserve per safari più spettacolari al mondo.
Alle 20,00, o giù di lì, inizia il servizio del cenone. Jeff e Margaret gongolano. Su un tavolo hanno addirittura preparato un buffet e tengono in caldo i calamari arrostiti, il riso lesso e tutto il resto, coprendolo con cura con la carta stagnola. Nessun problema di razionamento: c’è sufficiente da mangiare per il doppio delle persone. Arrivano con le bottiglie di Chardonnay sudafricano e di birra sfoggiando un sorriso immacolato che luccica sulla loro faccia scura e luminosa. Sono ghiacciate. Poi arrivano i calici da vino, i piatti seguiti dall’augurio di un “buon appettito”. Sono contenti e soddisfatti. Quasi esaltati dai nostri complimenti. Ci cambiano, appena si consumano, le candele. Sono delle semplici steariche accese in una mezza bottiglia di plastica riempita di sabbia bianca. Ma è al loro lume che voglio contemplare avvicinarsi il 2010. Nei giorni seguenti Jeff e Margaret hanno continuato a far uscire i piatti dalla cucina in poco più di venti minuti dall’ordine. La birra è tornata calda e il vino è sparito. Ma che gusto berla guardando il resort degli italiani dove tutto filava liscio e uguale, mentre il tramonto depositava su tutti noi la sua sottile coperta di fuoco!
Dal leggere sulla cucina africana:
Chef Kumalè “Cucine africane” ed. Sonda. Vittorio Castellani, alias Chef Kumalè, ha scritto numerosi libri sulla cucina africana e del mondo in genere. E’ una fonte preziosa di informazioni su preparazioni, costumi e cultura universale.
www.ilgastronomade.com
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