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Yapa cresce a Milano, Matteo Pancetti si espande in viale Monte Nero

Pubblicato in: Personaggi

Yapa Restaurant and Cocktail Bar
Viale Monte Nero 34, Milano
Aperto alla sera

Matteo Pancetti

di Andrea Guolo

Ci sono diverse novità in arrivo da Yapa. Stanno per partire i lavori finalizzati a un ampliamento degli spazi per il ristorante aperto a Milano, in Viale Monte Nero, da Matteo Pancetti, chef originario di Massa Carrara e autentico globetrotter con esperienze maturate un po’ in tutto il mondo, grazie anche ai tre anni trascorsi come chef privato della famiglia Ruffini, quella di Moncler, già attiva nel settore della ristorazione tramite Archive a cui fanno capo quote di minoranza di Langosteria e di Concettina ai Tre Santi.

Yapa - ambienti

Yapa nasce dopo il lockdown, quando i viaggi erano bloccati e la ristorazione doveva diventare necessariamente “di prossimità”, con l’idea di offrire ai milanesi la possibilità di esplorare il mondo senza lasciare la città. Sono passati ormai quattro anni e oggi Yapa – che in dialetto quechua significa “qualcosa in più”, quell’aggiunta gentile che il venditore offre al suo cliente nella spesa fatta al mercato – è un luogo amato dai locals e da chi vuole scoprire una cucina “nomade” in un ambiente contemporaneo, dalla community della moda e da chi semplicemente vuole approfondire le tecniche acquisite da Pancetti negli anni, in particolare la filosofia della boucherie applicata al mondo ittico e agli ortaggi.

In carta troviamo piatti dalle suggestioni asiatiche e sudamericane, dal Ceviche Yapa al Tacos del carnitas, al Pad Thaya, fino al Flan argentino e al Nashi tra i dolci, senza dimenticare le radici toscane con la semplice pagnotta imbevuta con olio evo e sale o con il burro toscano e il lardo di Colonnata.

E poi vini da tutto il mondo, selezionati dal sommelier Alfonso Bonvini, e i cocktail ideati dal bartender argentino Matias Sarli. I pairing con la mixology sono un must di un universo che, come ci ha raccontato Pancetti in quest’intervista, non conosce momenti di sosta.

Quali sono le novità da Yapa?

Yapa è in continua evoluzione, un po’ come me. Sto lavorando per dare ancora più spazio alla mia visione di cucina, spingendo la ricerca sugli ingredienti, sulle tecniche e su come raccontare il viaggio gastronomico che è alla base di Yapa. Nei prossimi mesi ci saranno delle novità, ma preferisco lasciare che sia l’esperienza a tavola a parlare.

Come si è evoluta la cucina dall’apertura a oggi?

Yapa è nato con un’identità gastronomica chiara e definita, frutto della mia esperienza e del mio percorso nelle cucine, nei mercati e nella cultura gastronomica dei paesi in cui ho vissuto. L’idea fondante di Yapa è sempre stata quella di creare un luogo che fosse un compendio di questo bagaglio di conoscenze e influenze. L’evoluzione è avvenuta nella ricerca sempre più approfondita della materia prima, nella sua selezione e nell’interpretazione che ne diamo. Abbiamo affinato il nostro approccio su come valorizzare ogni ingrediente, portandolo nei piatti che compongono il menu, il vero passaporto gastronomico di Yapa. La robatayaki, il wok e la filosofia del Boucher sono diventati elementi sempre più centrali, strumenti attraverso cui raccontiamo la nostra visione, in continua evoluzione.

Come definirebbe la sua cucina?

La mia cucina è un racconto. Ogni piatto è il risultato di esperienze vissute in diversi paesi, un dialogo tra tradizioni e innovazione. È una cucina che non ha confini geografici, ma che rispetta profondamente la materia prima e il suo contesto culturale. Mi piace pensare che Yapa sia un viaggio senza bisogno di prendere un volo.

Qual è il piatto che più la rappresenta?

All’inizio, il Ceviche Yapa era sicuramente il piatto simbolo: una reinterpretazione che gioca su acidità, cremosità e consistenze, prendendo spunto dalla tradizione peruviana ma con un’identità tutta nostra, frutto di anni di ricerca e sperimentazione. Oggi, però, se dovessi scegliere un piatto che rappresenta al meglio la mia filosofia, direi il Jamon de Tuna. È meno immediato, meno commerciale, ma esprime perfettamente il mio approccio alla materia prima e alla tecnica. L’idea nasce dal concetto del Boucher di Yapa, dove trattiamo il pesce con la stessa cura riservata alle carni. Il tonno viene lavorato con un processo di stagionatura e affinamento che richiama il jamón iberico, trasformandolo in qualcosa di completamente nuovo, senza snaturarne l’essenza. È il risultato di un lungo percorso di studio sulle tecniche di maturazione e valorizzazione della materia prima, ed è questo il cuore della mia cucina.

Qual è il ristorante nel mondo che più l’ha ispirata nel concepire Yapa?

Più che un singolo ristorante, la mia ispirazione nasce dai mercati e dalle cucine popolari che ho vissuto in Sud America e Asia. I piccoli ristoranti della Patagonia, le parrillas di Buenos Aires, le cevicherie di Lima, i locali di street food nei pueblos: luoghi dove la cucina è autentica, legata al territorio e alla cultura. È lì che ho imparato il valore della materia prima e delle tecniche di cottura tradizionali, che oggi fanno parte della mia visione gastronomica. Se dovessi citare un ristorante che mi ha influenzato profondamente, direi Pujol. Enrique Olvera è un grandissimo chef, capace di trasformare la cucina messicana rispettandone le radici ma portandola in una dimensione contemporanea. Il suo approccio alla ricerca e alla valorizzazione degli ingredienti è qualcosa che mi ha ispirato molto.

Qual è la sua filosofia nella selezione delle materie prime?

Il rapporto con i fornitori è fondamentale: scelgo gli ingredienti con la stessa cura con cui creo un piatto. Non seguo dogmi assoluti, ma un principio chiaro: ogni prodotto deve avere un senso, raccontare una storia e essere trattato con il massimo rispetto. Le mie esperienze all’estero mi hanno insegnato che i criteri di selezione variano da cultura a cultura. Non tutto deve essere per forza a km 0, la mia è una cucina libera, che guarda alla qualità prima di tutto. Per la carne, ad esempio, ci affidiamo alla Spagna e al Portogallo, perché per me hanno alcune delle migliori carni al mondo. Sul vegetale, invece, lavoriamo con il territorio, collaborando con aziende agricole vicino a Milano e Pavia, come Dagnotti, che ci fornisce prodotti stagionali di altissima qualità. Per il pesce, abbiamo costruito nel tempo rapporti diretti con tre barche e un fornitore di fiducia che ci segue da sempre. Da Yapa, il 70% del pesce è selvaggio, proprio per garantire quella qualità e autenticità che cerchiamo in ogni ingrediente

Che ne pensa di Milano, dello stato di salute della città, del successo/insuccesso del fine dining?

Milano è una città che non si ferma mai, è veloce, ambiziosa, sempre alla ricerca di novità. Il fine dining qui sta vivendo una fase di trasformazione: le persone vogliono esperienze autentiche, meno ingessate, che le emozionino attraverso il cibo senza dover per forza aderire ai canoni tradizionali dell’alta ristorazione. Credo che il futuro sia nell’equilibrio tra qualità, identità e accessibilità, perché le città vivono di tendenze e il modo in cui le persone si rapportano alla ristorazione cambia continuamente. Una cosa che noto da quando sono a Milano è che, a differenza di città come Madrid o Barcellona, dove la community degli chef è molto unita e collaborativa, qui c’è meno coesione. Il lato umano della ristorazione, la condivisione di esperienze tra chef, è un valore che può portare crescita all’intero sistema gastronomico della città. Un aspetto positivo, però, è che Milano si sta aprendo sempre di più a cucine meno scontate. Oggi c’è curiosità per tradizioni gastronomiche meno conosciute e questo è un segnale interessante del fatto che il pubblico sta evolvendo e vuole esplorare oltre i soliti confini

Qual è il target della vostra clientela? E quali sono le differenze di gusto tra le generazioni?

La nostra clientela è trasversale, non mi piace fare distinzioni tra generazioni. Yapa attira persone curiose, che cercano un’esperienza gastronomica fuori dagli schemi. Abbiamo una forte presenza di milanesi, ma anche molti ospiti internazionali, professionisti creativi, designer, architetti, persone che viaggiano e che vogliono ritrovare nel piatto un racconto autentico. Più che una questione di età, la differenza sta nell’approccio al cibo: c’è chi cerca rassicurazione e chi vuole lasciarsi sorprendere. Noi puntiamo su un equilibrio tra questi due mondi, proponendo piatti che stimolino la curiosità ma che abbiano sempre un’anima riconoscibile.

I nuovi piatti in arrivo?

Sono appena rientrato da un mese in Asia, un viaggio che mi ha lasciato tantissimi spunti. Stiamo sperimentando nuove idee in cucina, lavorando su ingredienti, tecniche e abbinamenti per trovare il giusto equilibrio tra la ricetta originale e l’identità gastronomica di Yapa. Non vogliamo forzare il processo: i nuovi piatti arriveranno quando avranno trovato la loro forma definitiva, quando racconteranno davvero qualcosa. Sarà una nuova tappa del nostro viaggio, un menu che porterà Yapa ancora più lontano, senza perdere la sua anima.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Vedo Yapa in luoghi diversi, immersa in nuove culture, in dialogo con mondi gastronomici sempre più ampi. Il progetto continuerà a crescere ed evolversi, senza mai perdere la sua identità. Per me il viaggio è sempre stato centrale, e continuerà a esserlo. Voglio esplorare, scoprire e portare tutto questo dentro Yapa. Ho un’idea chiara di dove voglio arrivare, ma preferisco lasciarla maturare prima di svelarla. Per ora, l’obiettivo è continuare a sorprendere, a sperimentare e a spingere sempre più in là i confini della nostra cucina.


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