Il più grande critico francese e il più conosciuto produttore italiano sono stati i due protagonisti a Cernobbio della prima giornata della Davos of Wine organizzata dal Grand Jury alla quale partecipano davvero tutti, dai protagonisti delle aste più importanti a Ivanhoe Johnston, ossia la nona generazione di negociant a Bordeaux, produttori da ogni parte del mondo, critici internazionali.
Dal punto di vista italiano il grande assente è il Sud, rappresentato da Silvia Imparato di Montevetrano, dal Conte Lucio Tasca d’Alermerita e da Gianpaolo Motta, napoletano produttore in Toscana che ha appena esibito l’ultima versione del suo Giorgio I <Sangiovese free>. Si potrebbe aprire la solita voragine sulla mancanza di aggiornamento e di capacità di comprendere quando è necessario fare lo scatto, ma da quello che ormai ho capito, vivendo la mia prima crisi del vino, le difficoltà paralizzano i contadini ed esaltano chi ha maturità commerciale perché sono opportunità. Come l’investimento sulla 1991 a Bordeaux di cui ci ha raccontato Ivanhoe che ha consentito di fare buoni soldi poi con la 1992.
Sul piano pubblico, presenti in forma massiccia Austria e Croazia mentre ovviamente le regioni italiane no. In vista della prossima scadenza elettorale è meglio investire in tarantelle e putiputi.
Bettane ha aperto il lavoro con una affascinante prolusione sulla moralità della critica, elemento essenziale per la credibilità delle valutazioni da cui poi scaturiscono i prezzi. Un attacco non esplicito ma ovviamente diretto alle Spectre d’Oltreoceano. I punteggi sono solo delle preferenze del critico, un modo per dare indicazioni di massima e non possono essere invece letti come l’unico e ultimativo modo di valutare il vino. Per Bettane è essenziale la totale separazione tra i mondi della critica e quello della produzione tra i quali non deve esserci alcun tipo di rapporto, anche amicale. La vera essenza del critico è una lotta quotidiana con se stesso per non farsi influenzare dalle antipatie e dalle simpatie dando per scontata l’assoluta indipendenza economica.
Questa lotta comprende il continuo aggiornamento a cui si è obbligati per restare all’altezza di un mondo in continua evoluzione.
L’aspetto negativo della critica enologica degli ultimi anni è costituito, per il guru francese, da questa voglia di distruggere e demolire gli altri che fa perdere ogni serenità e la capacità di giudicare adeguatamente il vino per quello che è. Spesso se un vino è piaciuto a Tizio viene attaccato da Caio e viveversa.
Angelo Gaja si è presentato in grande spolvero nella sessione pomeridiana con un discorso appassionato e molto diretto: autoctoni e internazionali? Tutte fesserie, in Italia c’è possibilità per tutti e i vini più celebrati, anche in regioni come la Campania (espressamente citata), sono ottenuti con uve non locali.
Ha poi raccontato la storia della rinascita del vino italiano negli ultimi trent’anni, cosa comune del resto, caratterizzato dalla diversità dei territorio: il frazionamento, per Gaja, è uno dei vantaggi del Belpaese, che è in grado di presentarsi con offerte molto variegate e diverse sul mercato internazionale anche se è sempre difficile orientarsi nelle denominazioni per uno straniero.
La dialettica più profonda è quella tra l’opulenza dei vini del Nuovo Mondo e l’eleganza europea. Una metafora per capire la differenza è quella che paragona il Cabernet Sauvignon a John Wayne e il Nebbiolo a Marcello Mastroiani: il primo diretto, sempe bravo a fare il proprio dovere coniugale, che occupa subito il centro della stanza (palato), il secondo chiuso, sornione, in attesa di essere scoperto, infedele perché buono per l’abbinamento con il cibo
Non lo ha detto, ma lo ha lasciato intendere, l’eleganza è sicuramente l’obiettivo produttivo da salvaguardare in questa fase globalizzante per chi lavora in Europa.
Poi due note politiche: la necessità che il mondo del vino reagisca alla campagna proibizionista in corso in Italia e in Francia, una delle cose più stupide e incomprensibili visto che l’alcol del vino è un processo naturale di cui l’uomo beneficia da migliaia di anni e che rappresenta una fetta importante di un mondo efficiente e sano.
Infine, tornando sulla ricchezza dell’Italia, un previsione: <Sono ottimista sulle capacità del nostro paese di affermarsi. Sono sicuro che la prossima sorpresa sarà costituita dai vini bianchi>.
E voi in Campania, mi ha detto quando ci siamo scambiati due chiacchiere, potete giocare due armi formidabili: il Fiano e il Greco, due uve straordinarie.
Girerò la notizia ai produttori di Fiano che hanno iniziato a fare Aglianico e a quelli di Greco impegnati nella Falanghina.
Molto interessante la presentazione dell’Austria di Willy Klinger, un sistema che funziona alla perfezione a cui però, secondo il giornalista americano Gil Lempen Schwartz manca una superstar per diventare come Bordeaux o la Toscana. Sono sempre colpito quando ascolto la capacità dei certi anglosassoni di banalizzare e semplificare tutto, una vera e propria radiografia della metastasi mondiale che affligge il vino. Già, perché la omologazione del messaggio implica poi sempre quella del prodotto, sicché le aziende altro non diventerebbero che punti vendita dello stesso vino chiamato in modo diverso. Un po’ come una enorme catena Mc Donald. <Vendete Pinot Grigio con la Red Bull, l’unico vostro marchio conosciuto al mondo> è stato il consiglio, così il vostro sistema turistico diventerà come Las Vegas.
E se la forza dell’Austria, invece, fosse la mancanza di superstar perché è essa stessa la Superstar?
Ps: a taste of culture, Austrian Wines at the World wine symposium
Ratscher Nussberg Grosse 1994, Sauvignon blanc eterno. Così vorrei il Fiano di Avellino
Helligenstein Lyra Riesling 2004 Brundlmayer, ottimo sorbetto da manuale
Ruster Ausbruch 1995 Triebaumer, dolce infinito. Così vorrei i moscato di Saracena o quello di Baselice
Haide 2006 Juris, un Pinot Noir cerebrale ma molto fine e bevibile. Così vorrei il Piedirosso
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