Un po’ la crisi, un po’ qualche degustazione, un po’ la Davos du Vin a Cernobbio. Tempo di bilanci, così per fare il punto di lavoro. Soprattutto in vista di un profondo cambiamento di visuale in arrivo e di cui avrete a breve notizia.
Il Sud, direi il Centro Sud con l’esclusione di parti della Toscana, è ancora assolutamente fuori dalla percezione comune e specialistica come zona di produzione di vino di pregio. Persino la Sicilia, di cui tanto si è parlato negli anni ’90, non ha Superstar adeguate a rappresentarla in maniera immediata, franca, diretta. Non bisogna fare il giro del mondo per capirlo, basta chiedere ai grandi ristoranti della Penisola Sorrentina e della Versilia cosa vendono sopra i trenta euro e cosa sopra i 500 euro a bottiglia.
L’unica novità italiana di questo decennio, peraltro contesa dall’Austria, è il Pinot Grigio di cui è letteralmente impazzito il mercato anglosassone per quei bisogni indotti dalla pubblicità che a noi ci portano a non poter fare a meno dell’ hula hoop
Anzi, negli ultimi vent’anni, alcuni territori come Cile, Argentina, Austria, Nuova Zelanda, Oregon e Sud-Africa hanno messo la freccia e sorpassato il nostro Mezzogiorno.
Questo non vuol dire che non sono stati fatti notevoli passi in avanti, ma solo che la velocità e la profondità di comunicazione non sono state adeguate al cambiamento enologico mondiale e alla crisi dei prezzi iniziata nel 2002. Basti pensare, a mò di esempio, che solo nel 1998 la Campania ha avuto il suo padiglione al Vinitaly, la Puglia nel 2003 mentre la Basilicata investe ancora nella Fiera del Levante consigliata evidentemente da chi vende stufe nel deserto e frigoriferi agli esquimesi.
Il risultato è che i vitigni del Sud sono ancora assolutamente sconosciuti fuori dal Sud alla grande massa dei consumatori e che solo la ristretta cerchia di critici oltre che di enotecari e ristoratori consapevoli ne ha nebulosa contezza
In particolare, possiamo affermare con certezza che la qualità produttiva dei vini meridionali è ormai una caratteristica acquisita e diffusa in tutte le sue manifestazione aziendali, dalle realtà storiche a quelle nate con l’ultima vendemmia.
Il punto è che lo stesso miglioramento è avvenuto un po’ ovunque grazie alla diffusione delle conoscenze agronomiche e in cantina che consentono di piantare viti anche in posizione non ottimali (Montalcino docet). Questo balzo qualitativo in avanti riguarda tutto il mondo del vino, ché fino ad una generazione fa persino Bordeaux, a parte i 15/20 chateau più importanti che fanno leggenda, aveva problemi di affermazione qualitativa.
Negli ultimi 20 anni è avvenuto però che alcune aree produttive hanno conquistato, o meglio, riconquistato il loro mercato di prossimità. Questo si è verificato anzitutto in Abruzzo, Umbria, Campania, Sicilia, poi in seconda battuta in Basilicata, Puglia e solo in parte in Calabria, ormai l’unica regione italiana dove non sempre si trovano carte dei vini con aziende di territorio così come avveniva all’inizio degli anni ’90 (1990 non 1890) in tutto il Sud.
In questo movimento sul mercato di prossimità, la Campania ha avuto una spinta in più, assolutamente inconsapevole perché in realtà tutti gli sforzi enologici e mediatici erano concentrati sui rossi, grazie ai tre bianchi (Fiano, Greco e Falanghina) che hanno incrociato l’alleggerimento della cucina e la tradizionale gastronomia della Costa. Questa caratteristica ha consentito alle aziende campane di occupare altri mercati più aperti anche perché senza background produttivo di fascino come Roma (primo importatore di vini campani), Emilia Romagna e in parte Milano.
Il futuro (auspicabile ma al momento presunto) della Campania (e della Basilicata) sul mercato mondiale dello star system non potrà essere l’Aglianico perché le caratteristiche di questo vitigno non lo mettono in condizione di essere competitivo con i grandi uvaggi internazionali o con lo stesso nebbiolo. La forza dell’Aglianico sarà dunque quella di essere un grande vino di territorio da consumare con la cucina tradizionale o ben strutturata, un po’ come il Lambrusco in Emilia Romagna, il Teroldego il Trentino, il Sangiovese in Toscana, il Montepulciano in Abruzzo, il Sagrantino in Umbria, il Gaglioppo in Calabria, il Negroamaro e il Primitivo in Puglia. Il suo grande vantaggio sarà però quello di essere espressione di un areale con oltre sei milioni di residenti, il più popoloso dopo la Lombardia, a ridosso del mercato romano e con simpatizzanti in tutto il mondo per via dell’emigrazione che ha interessato il Sud.
Con molta probabilità, sarà la 2004 la prima annata che consentirà di passare dalla preistoria alla storia di questo vitigno. L’alternativa di consumo è annacquarlo con merlot, cabernet, primitivo: ma in questo caso sarà solo un buon vino e non potrà mai essere lontanamente paragonabile alle storie vere di altri territori tradizionali. Sulla diversità, più che sulla omologazione, potrà giocare le sue carte sull’export.
Stesso discorso vale per gli altri vitigni meridionali, con la unica eccezione, a mio giudizio, dei blend etnei capaci di raggiungere quella finezza espressiva necessaria per poter essere compresi in ogni luogo senza tradire le proprie caratteristiche. Ma anche in questo caso bisognerà attendere la creazione della storia, nella speranza che l’Etna non finisca nerodavolizzato con l’introduzione della spalliera e delle barrique a gogò.
Inoltre il punto debole del Sud, oltre alla malaccorta gestione paesaggistica e della qualità ambientale del territorio da parte del ceto politico che è espressione miopica delle comunità che lo elegge, è l’assoluta incapacità di promuoversi fuori dal Sud perché la maggior parte delle aziende, direi la quasi totalità, ha una idea assolutamente confusa di cosa siano il mercato e la gastronomia moderna. <Vienimi a trovare così ci facciamo una bella soppressata> è ancora il punto più alto di marketing di cui il produttore medio meridionale è capace perché non gira, non beve e non mangia fuori dal proprio territorio a meno che non sia scarrozzato gratis dal proprio assessorato regionale all’agricoltura. Capita così che si facciano spennare dagli imbonitori di turno che vendono acqua come pozione per far riscrescere i capelli mentre gli assessorati regionali fanno quasi esclusivamente animazione territoriale con putiputi e triccabballac, anch’essi spesso ripuliti dal funamboliere del momento. Sono invece assolutamente insufficienti i fondi pubblici stanziati per la ricerca, l’unica eccezione è la Puglia, mentre solo due aziende private, Feudi e Librandi, hanno ritenuto di investire cospicui fondi su questo fronte.
Inoltre un altro punto debole, culturale, è che la maggior parte dei produttori preferisce mantenere il punto piuttosto che guardare alla convenienza. In poche parole, sembra incredibile, spesso siamo ancora di fronte a problemi di affermazione territoriale, a cosa ho fatto io e cosa hai fatto tu. Se c’è quello io non vengo. E, ancora una perla, io metto solo Fiano nel Fiano, io. Gli scienziati alle prese con il problema dell’anello mancante potrebbero cominciare da qui a risolvere l’enigma della banana è solo mia:-)
Come ha detto Angelo Gaja nel suo intervento a Cernobbio, Fiano e Greco, ma io penso anche la Falanghina, possono essere il vero petrolio enologico per la Campania come il rosato per la Puglia e la Calabria cirotana. A patto che non si producano bottiglie come se fossero buatte di pummarole da preparare in agosto e vendere a dicembre. Le caratteristiche di queste tipologie impongono serietà, specializzazione, nascita di cru e di annate riserva.
A parte infatti che anche per il pomodoro si impone ormai un discorso di riqualificazione produttiva, il punto è che non si potrà mai creare fascino alle bottiglie di vino trattate come le bottiglie di acqua minerale.
Bisogna dunque ripartire dall’agricoltura sana per capire cosa si mette in bottiglia e dalla maturità commerciale che fa grande un territorio in un mercato globale ormai davvero piccolo e dove l’offerta supera la domanda in maniera costante. Proprio come la massa di informazioni supera la capacità di ascolto.
Chi vivrà berrà.
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