Come sta evolvendo la comunicazione in Italia e all’estero? Come l’offerta formativa, oggi molto più ampia, può influire e sta influendo sul trend della comunicazione del vino, sempre più sofisticata e ancor più necessaria.
Oggi lo chiediamo ad Aldo Fiordelli
Aldo Fiordelli, giornalista professionista fiorentino di 40 anni, scrive per le Guide de L’Espresso (ristoranti e vini), collabora con l’edizione fiorentina del Corsera ed è autore di Decanter.com. Giudice al Concours Mondial de Bruxelles e Chevalier de Champagne, ha scritto tre libri: sul tartufo, sui macchiaioli e sulla cucina di Vito Mollica.
- Come sei “inciampato” nel settore vino?
A noi toscani ci battezzano col vino, siamo intrisi della sua cultura, nasciamo circondati dalle vigne. Ma un episodio c’è, legato al Castello di Monsanto riserva Il Poggio 1990. Fabrizio Bianchi è un amico di famiglia. Una sera venne a cena portando una bottiglia del suo vino ch’io trovai in casa il giorno dopo. Era il 1994, il vino era appena uscito in commercio e io avevo 17 anni. Me ne versai un mezzo calice, accostai il naso al bicchiere e… porca miseria! Fino ad allora avevo assaggiato qualche rosso perlopiù annacquato “per far brindare il bambino” nelle occasioni speciali. Non avevo aspettative. Non potevo essere suggestionato. Non sapevo fosse una bottiglia pregiata in una delle migliori annate. Tutte cose che ho scoperto dopo. Mi ero emozionato in modo puro per l’intensità e la complessità di quel bicchiere. Se il vino è questo, pensai, voglio cercare di capirne. E non ho ancora smesso.
- Come credi sia evoluta la critica negli ultimi 30 anni? E da chi hai imparato di più?
A braccetto con la crescita e la maggiore diffusione delle conoscenze tecniche sul vino. L’Italia è uno dei paesi leader mondiale nella cultura agronomia e nel know-how dei macchinari per l’enologia. Ma la critica si è evoluta o involuta? Oggi siamo arrivati ai punteggi, indispensabili strumenti di sintesi editoriale intendiamoci. Ma indispensabili perché la gente non legge più nemmeno Facebook, è passata a Instagram per guardare solo le figure. I punteggi sviliscono il racconto, sviliscono quel rapporto di fiducia che s’instaura tra giornalista e lettore che la convergenza su un 94,5/100 non potrà mai sostituire. Sviliscono la lingua italiana e il vino inteso come cultura, riducendo la questione a meramente commerciale: vedo dunque acquisto. Così facendo la gente comprerà sempre più in base al prezzo conveniente e sempre meno facendo pazzie per una grande bottiglia. Io sono stato svezzato al vino dal principe Kunz, un grande gastronomo fiorentino. Era stato anche un produttore, forse i più anziani ricorderanno il Tegolato, il padre di tutti i Supertuscan. Conservo ancora la copia sottolineata del suo Ribéreau-Gayon che mi regalò tanti anni fa e sul quale studio tutt’ora. Per quanto riguarda la critica in senso stretto sono cresciuto alla scuola piemontese di Enzo Vizzari. La sua rivoluzione della guida vini de L’Espresso secondo me è proprio il tentativo di stare al passo coi tempi cercando di recuperare il valore di un vino e del suo territorio. Mi è stato riferito che qualcun altro va in giro accusandomi di essere irriconoscente e umanamente mi dispiace, ma io non ho cambiato mestiere.
- Pensi che in Italia ci sia un deficit nella comunicazione dei prodotti enoici rispetto alle potenzialità delle risorse?
L’Italia è il paese dei vitigni autoctoni e delle piccole aziende. Le stesse che non possono permettersi i budget per comunicazione e marketing che hanno invece le wine industry. Ma questa è solo in parte una giustificazione. Esistono, ad esempio, i consorzi. Compito improbo di queste istituzioni è mettere d’accordo gli associati e spendere i loro soldi in strategie di marketing condivise. A volte però ci si perde in un bicchier d’acqua. Facciamo l’esempio di Prowein. L’anno scorso l’Italia aveva in agenda una sola degustazione al giorno organizzata dall’Ice in tedesco. Non un seminario in inglese, sui territori, i vitigni, gli stili, niente. Occasioni non solo perse da noi, ma sfruttate da altri a cominciare dalla Spagna.
- È noto che sia molto migliorata l’offerta formativa a disposizione di coloro che vogliono formarsi sulla tecnica di degustazione, la sommelierie, la geografia del vino e tutto il resto. Come credi che questo stia incidendo e inciderà sul presente e sul futuro – nemmeno troppo remoto – della comunicazione del vino?
Ci voleva poco… É vero ed è merito della globalizzazione. Il confronto con modelli diversi di educazione alla degustazione come ad esempio quello francese o anglosassone non possono che aumentare la consapevolezza sui nostri vini, il che alla lunga non farà altro che farceli apprezzare maggiormente. Importare il modello anglosassone che conosco più da vicino avrebbe il vantaggio di ridurre il relativismo che c’è in troppe degustazioni dove si sente tutto e il contrario di tutto. Un vino lo si capisce o non lo si capisce, poi si possono discutere le sfumature. Importare questo modello tout court porrebbe però anche un rischio, quello cioè di un eccessivo tecnicismo che mal si concilierebbe con la cultura italiana del vino.
- Quali sono i presupposti per l’indipendenza della critica enologica?
Sono due. Avere un editore e avere un editore che paghi bene. Perlomeno abbastanza da poter fare questo lavoro da professionisti, cioè con esclusività. Organizzare eventi, gestire uffici stampa e marketing, fare l’impiegato in banca mal si concilia con una critica autorevole. Su questo anche molti produttori ci marciano, ma sottovalutano secondo me che alla lunga il peso della critica italiana rischia di diminuire a favore di quella straniera.
- Chi vedi nel futuro della critica enologica?
Vedo chi ha saputo mischiare qualità e nuove idee: Alessandro Masnaghetti e le sue mappe o Ian d’Agata e la sua Vinitaly Academy. Chi saprà affrancarsi dalle tribù alle quali molti giovani ambiscono di entrare confondendo l’autoreferenzialità con un’autorevolezza a lungo termine. Chi avrà voglia di studiare e viaggiare nei paesi del vino senza preconcetti. Chi è stato onesto oggi con i propri lettori. Chi sarà in grado di superare Soldati, Veronelli, Brera, Aldo Santini, dopo averli letti, compresi e “pisciati” (passatemi la metafora presa a prestito da Giacomo Tachis). Ma non sono un veggente e quindi forse ti sto dicendo solo cosa cerco di fare io per esserci in quel futuro.
- Un consiglio per: i giovani che muovono oggi i primi passi lavorativi nel settore enoico, i consumatori più o meno appassionati, i colleghi.
Siate anarchici, poligami, poliandri… diceva Veronelli.
Interviste precedenti
1-Alessandro Torcoli, Italia
2-Horia Hasnas, Romania
3-Cathy van Zyl, Sud Africa
4-Akihiko Yamamoto, Giappone
5- Arto Koskelo, Finlandia
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