Come sta evolvendo la comunicazione in Italia e all’estero? Come l’offerta formativa, oggi molto più ampia, può influire e sta influendo sul trend della comunicazione del vino, sempre più sofisticata e ancor più necessaria.
Oggi lo chiediamo ad Alessandro Torcoli
Alessandro Torcoli è editore e direttore della rivista enologica Civiltà del bere Studi Classici e laurea in Relazioni pubbliche. Giornalista professionista e sommelier. Ha collaborato con diverse testate, tra le quali i quotidiani Il Giornale e Il Sole-24 Ore. Ha partecipato come giurato alle trasmissioni La Prova del cuoco di Antonella Clerici su Raiuno e I menù di Benedetta su La7. All’attività giornalistica affianca da sempre quella di organizzatore di eventi, come la biennale dell’enologia VinoVip Cortina e Un Vino per l’Estate a Milano. Partecipa a importanti giurie enologiche (Decanter World Wine Awards) e gastronomiche. Nel 2009 vince il premio quale “Miglior giovane giornalista italiano” (con nomination anche nel 2008, 2010, 2011, 2012, 2013) conferitogli dall’associazione Grandi Cru d’Italia, che riunisce 140 tra le più prestigiose aziende vinicole nazionali. Nel 2010 gli viene nominato Accademico aggregato e nel 2014 confermato Accademico corrispondente dall’’Accademia italiana della vite e del vino. Il 28 maggio 2010 riceve a Siena il Premio “Dioniso d’Oro” dal Ministero del Lavoro insieme allo scrittore Alain Elkann. Nel 2011 apre l’Enoluogo a Milano, un’enoteca di seconda generazione, che ospita anche parte della redazione della rivista Civiltà del bere. Nel marzo dello stesso anno partecipa alla MasterClass dell’Institute of Masters of Wine, e passa l’esame di ammissione al prestigioso corso di studi. Oggi è Second Year Student. Nel marzo 2014, su proposta della Fondazione Masi, entra nella Commissione selezionatrice del Premio Civiltà del Vino, di cui è presidente Isabella Bossi Fedrigotti e del quale fanno parte Piero Antinori, Angelo Gaja, Jens Priewe, Ezio Rivella e Demetrio Volcic. Nel 2016 organizza “Le Cinque Giornate di Milano”, cinque eventi di degustazione “rivoluzionari” al Museo della Scienza Leonardo da Vinci. Presta consulenze di marketing strategico internazionale e organizza masterclass di degustazione comparata internazionale.
Come sei “inciampato” nel settore vino?
Per nepotismo. Scherzi a parte, fu mio nonno a fondare la mia rivista, Civiltà del bere, nel 1974. Io sono nato dopo. Tuttavia in famiglia si parlava poco di vino. Lui era un uomo di marketing, più che un assaggiatore. Ai tempi dell’università, frequentai per curiosità il corso dell’Ais e rimasi folgorato. Tornai da lui con il “pezzo di carta”, e cominciai la gavetta… mi resi conto che stava per cominciare un viaggio meraviglioso e non persi l’occasione. Avevo solo un timore: che occuparmi di vino per mestiere potesse stancarmi. E invece no. Non si finisce mai di imparare, e le variabili sono così tante che è impossibile annoiarsi. Considero il vino uno dei punti più alti della cultura occidentale. Sono in buona compagnia. Scriveva Hemingway: “Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà del mondo”.
Come credi sia evoluta la critica negli ultimi 30 anni e da chi hai imparato di più?
Io non mi considero propriamente un wine critic. Mi sento più uno narratore, per attenerci agli inglesismi: un wine writer. Anche se mi capita sempre più spesso di dover sintetizzare quello che penso in un numero. Ne farei volentieri a meno, ma non è stato trovato un sistema migliore per comunicare a un lettore se e quanto ti è piaciuto un vino. Cerco di accompagnare sempre il numero con alcune righe di spiegazione, di informazione. Ciononostante, credo che la metà dei lettori non le legga, purtroppo. Per fortuna, esiste anche un pubblico qualificato, davvero interessato, che poi è in parte quello che segue Civiltà del bere, al quale interessa molto entrare nel dettaglio.
Venendo alla domanda, la critica si è polverizzata. Un 100/100 di Parker non vale certo oggi quanto valeva vent’anni fa. Comunque ci sono critici molto preparati e la cultura enologica italiana, grazie a questo movimento di critici competenti, potrebbe elevarsi moltissimo. Invece mi pare che gli editori e i comunicatori ritengano che non esista il lettore competente; chi scrive sembra scrivere solo per se stesso, o per i suoi pari. In alternativa, si livella tutto sull’ovvietà o, appunto, si stilano classifiche dei “migliori cento” e si ricade nei centesimi. I miei maestri? Sicuramente mio nonno, per la gestione editoriale e l’organizzazione di eventi, lo scrittore Mario Soldati, vecchio amico di famiglia (nel cui studio passavo ore e ore nella nostra Tellaro) maestro di uno stile apparentemente superficiale e Bruno Donati, il mio caporedattore, che mi ha fornito gli strumenti del mestiere di giornalista.
Pensi che in Italia ci sia un deficit nella comunicazione dei prodotti enoici rispetto alle potenzialità delle risorse?
Decisamente. È un mio cruccio. Non mi capacito del fatto che sia riservato così poco spazio al vino rispetto a tutte le altre manifestazioni culturali. Si parla molto più di libri spazzatura, di giacche che indosserebbero solo i marziani e che servono solo per far parlare dello stilista di turno, di serie televisive aberranti. Sono encomiabili gli sforzi del Corriere della Sera e del collega Luciano Ferraro, che ogni settimana cerca di raccontare una storia tratta dal nostro mondo. Ma non mi basta. Io vorrei che esistesse un supplemento settimanale, come La Lettura, per rimanere in orbita Corriere, dedicato interamente al vino o, potrei capire, almeno alla cultura enograstronomica. E non farcito solo di ricette, perché di queste sono intasati i canali di comunicazione. Uno strumento di cultura, perché i lettori possano capire cosa mangiano e come bevono.
È noto che sia molto migliorata l’offerta formativa a disposizione di coloro che vogliono formarsi sulla tecnica di degustazione, la sommellerie, la geografia del vino e tutto il resto (vedi il tuo stesso percorso per il titolo di MW). Come credi che questo stia incidendo e inciderà sul presente e sul futuro – nemmeno troppo remoto – della comunicazione del vino?
L’ampiezza dell’offerta formativa è positiva, ma mi pare che le persone escano da questi corsi un po’ dopati. Intendo che, concluso il corso AIS di primo livello, molti si sentono eredi di Luigi Veronelli. E c’è di più: la maggior parte delle persone segue questi corsi con la speranza (e talvolta l’obiettivo) di cercarsi un’occupazione nel mondo del vino. Ora, questo lo capisco: troppi purtroppo si sentono frustrati nel proprio campo e cercano alternative. Tuttavia questo settore, che era tra i più vivaci e floridi, ora sta raggiungendo livelli di saturazione. Vedo molti volti delusi, di chi non trova un vero lavoro nel mondo del vino… e se ne allontana. E’ un dispiacere.
Bisognerebbe avvicinarsi al vino per puro piacere, perché bere bene, con consapevolezza, ci riempie la vita di gioia e intelligentemente. E poi, se capita di poter sposare passione e professione, si tratta di una bella fortuna. Vent’anni fa, quando frequentai il mio primo corso, ambire al diploma Ais era soprattutto una questione di passione o tutt’al più di prestigio sociale. Se lo concedevano le persone di buon gusto e vivaci culturalmente. Poi sono arrivati gli anni in cui era soprattutto una moda, e ora vedo molto utilitarismo, come dicevo. Ma c’è un filtro naturale, in tutto ciò, una dinamica strana che ho notato in questi anni: alla fine, resiste solo chi è mosso da autentica passione. C’è una selezione naturale. Infatti, come tutte le passioni, il vino ti sottopone anche a delusioni, a frustranti empasse, e difficilmente ti fa diventare ricco. Anzi, direi mai, a meno che non si intenda per vino lo spaccio – più o meno legalizzato – di container. O l’imbottigliamento di masse vinose anonime, nobilitate da un brand costruito a tavolino. Per carità, non si piò generalizzare, ed esistono prodotti commerciali, da mensa quotidiana, di tutto rispetto. Banali, ma innocui. E anche questi vini hanno dignità. Ma il vino che appassiona esprime un’identità. È il frutto di una relazione stretta tra il genius loci, lo spirito del viticoltore, la vite, il clima, la terra. Credo molto nel legame tra le famiglie e la loro terra.
Quali sono i presupposti per l’indipendenza della critica enologica?
L’onestà intellettuale e la passione del singolo. A livello di sistema, in Italia, in sostanza non è possibile vivere di critica enologica, cioè facendo pagare il proprio “bollettino” ai lettori, come fa Parker. Anche Wine Spectator e Decanter, vivono di pubblicità ed eventi sostenuti dai produttori. Insomma, la maggior parte degli editori del settore enologico vive grazie alle aziende vinicole. Ovviamente tutt’altro è il destino di chi degusta e scrive solo per diletto. Sarà sempre possibile trovare una voce interessante e costante tra i dilettanti (in senso positivo, naturalmente).
C’è però una nota positiva nella tregenda di una crisi che ha stravolto il mondo dell’editoria tradizionale: sono spariti i grandi inserzionisti. Come dicevo un paio di anni fa al Symposium dei Masters of Wine, dove mi invitarono a un panel di discussione con Jancis Robinson e il vicepresidente di Google Europa: non abbiamo più grandi inserzionisti, che determinavano l’esistenza delle nostre imprese, ma tanti piccoli partner. Se devi dire qualcosa, e sei un giornalista “con la schiena dritta”, lo scrivi. Perderai un inserzionista e ne cercherai un altro. È molto più faticoso, ma più gratificante.
Chi vedi nel futuro della critica enologica?
Vedo i tanti ragazzi che girano il mondo, assaggiano vini di ogni dove, cercando di capire i luoghi da cui provengono, il pensiero di chi li produce, senza pregiudizi. E che ottengono il diploma Wset, ad oggi l’unica certificazione internazionale, riconosciuta ovunque, che attesta una buona conoscenza dei vini del mondo, del mercato (e anche degli alcolici, che non guasta). Ma attenzione: la critica enologica, come mestiere, rischia di estinguersi se non si trova un modello alternativo ora che le Guide annaspano, le riviste chiudono, i grandi giornali si disinteressano al vino. Quindi, ripartirei dalla passione. Poi se servirà, i critici saranno già lì, pronti per scrivere di professione.
Un consiglio per: i giovani che muovono oggi i primi passi lavorativi nel settore enoico, i consumatori più o meno appassionati, i colleghi.
Ai giovani, consiglierei di procedere con rispetto e umiltà. Veronelli non si nasce né si diventa a trent’anni. Prima di esprimere la propria vis polemica, bisogna essere veramente autorevoli, altrimenti alla prima scivolata, che è sempre dietro l’angolo, si sparisce di scena. Inoltre, la modestia è segno di intelligenza. Ci vuole anche rispetto, perché talvolta i critici rischiano di offendere il frutto di un duro lavoro. È anche vero che, dall’altra parte, alcuni produttori si offendono se perdono un centesimo di punto… Est modus in rebus. Ai consumatori, che dire? Bevete e moltiplicatevi… abbiamo bisogno di voi e noi siamo al vostro servizio! Ai colleghi non mi sembra elegante dare consigli. Anche perché molti ne sanno più di me.
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