Luigi Moio, ordinario di Enologia a Portici, oltre ad essere titolare di aziende storiche in Campania, collabora con cantine in Puglia, nel Lazio, in Toscana e in Piemonte. Ma soprattutto si è formato quattro anni a Bordeaux e, lavorando con i francesi, ha ben chiaro cosa sia la costruzione di una filiera vitivinivola in grado di affrontare il mercato globale e di resistere ai danni provocati da furbi e truffatori. «Noi italiani siamo bravissimi a farci del male da soli».
Nel senso che è sbagliato rendere pubbliche queste inchieste?
«No, non è questo. è tipicamente italiano inseguire il mercato invece di imporre lo stile nel gusto come nei prezzi».
Cioé?
«Siamo in presenza di due problemi diversi nel cui specifico non entro perché non conosco i fatti. Se è vero quanto riportato dalla stampa, in un caso si adultera perché si insegue il prezzo basso. Nel secondo per andare incontro ad un gusto che pensiamo sia nella testa di chi beve e non, invece, del territorio».
Perché pensa che sia una caratteristica italiana?
«Perché non si fa i conti con la tradizione e la storia. E rispetto alla grande tradizione mercantile francese facciamo la figura dei bottegai. Soprattutto con la scarsa trasparenza di alcuni comportamenti. Io non sono contrario all’uso di vitigni internazionali, purché tutto avvenga in grande chiarezza di mercato. Mandare un messaggio diverso dalla realtà ci espone a gravi rischi quando poi saltano fuori queste notizie, vere o false poco importa».
Oltre a fare appelli etici, c’è qualcosa di concreto da poter fare subito?
«Certo, intervenire sui disciplinari. Se in un territorio per poter fare un buon vino è necessario introdurre nuovi vitigni, perché non farlo? Meglio essere chiari con il mercato che fare guerre ideologiche che introducono proibizionismi inutili».
dal Mattino del 5 aprile 2008
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