di Paolo De Cristoforo
Caro Luciano,
quando si scende da una giostra, ci vuole sempre un po’ di tempo per riprendersi. Quando poi questa giostra si chiama Vinitaly, la testa gira per molto molto tempo. E non è solo per gli effetti dell’alcool che entra in circolo nei 5 giorni, malgrado sputacchiere e altri marchingegni. Il fatto è che nel mondo del vino, nonostante le derive omologanti e le storture mediatiche, c’è ancora moltissimo spazio per le sorprese e le emozioni e per la voglia di condividerle. Ho interpretato così la tua piccola classifica: più che una razionale valutazione numerica, un tentativo di fare ordine tra le sensazioni, immaginando cosa resterà nel ricordo di questa divertente edizione.
A me restano diverse cose, alcune delle quali ho il piacere di ritrovare nel tuo racconto. Innanzitutto la rivincita bianchista. Una fissazione, come dici tu, che trova giustificazione nel fatto che i bianchi campani nati dalla torrida vendemmia 2003 sembrano avere una marcia in più rispetto a tanti altri prestigiosi “colleghi” sparsi nella penisola. Sembra essere una grande annata per il Greco di Tufo, ma anche il Fiano e le Falanghine, per non citare i vitigni cosiddetti minori, vanno a comporre un quadro di sorprendente livello, come se le temperature della scorsa estate e le problematiche legate alle basse acidità siano state gestite con una certa non-chalance. Lì dove manca un pizzico di freschezza, subentra spesso la sapidità e la personalità di vini più minerali del solito. Difficile eleggere i top in mezzo a tante chicche, anche perché bisognerebbe aver assaggiato tutto, ma proprio tutto. E allora vale la pena di lanciare giusto qualche spunto.
La Coda di Volpe ‘03 della Tenuta Ponte è tutt’altro che un vinello da aperitivo e mette in mostra struttura e stoffa da Greco; la Falanghina dei Campi Flegrei ’03 di Di Meo è un’interpretazione tipica e saporita, con sfumature iodate e salmastre di grande fascino; il Moscato di Baselice ’02, come dici tu, è un elegante invito a non abbandonare completamente questa divertente tipologia. Per quanto riguarda i rossi, non era facile lasciarsi entusiasmare, considerando che la maggior parte delle cantine presentavano prodotti della disastrosa annata 2002, il cui marchio di fabbrica generalizzato sembra essere strutture esili, acidità scisse e stati evolutivi avanzati, pur con qualche bella e significativa eccezione. Il Terre di Lavoro della versione 2002, ad esempio, sembra nascondere la sua proverbiale indole scorbutica dietro una grande eleganza, ma il suo carattere di vino difficile, da leggere con attenzione, è sempre lì. Concordo con te sul fatto che ‘A Scippata di Apicella, già molto buono nella versione 2001, è in grado di coniugare tipicità e complessità. Ma è grande la tentazione di spalancare fin d’ora le porte a quella che potrà essere una grande annata anche per i rossi, la 2003; e allora restiamo a bocca aperta di fronte alla morbidezza e alla piacevolezza di beva che sgorga dal Donnaluna 2003, l’aglianico giovane del “ribelle” e sempre in movimento Bruno De’ Conciliis.
Frammenti di una fiera che è sicuramente business, immagine e affari, ma continua ad essere anche e soprattutto incontro, gemellaggio, scambio dialettico e, perché no, pizzerie venete e ristoranti affollati, temperature equatoriali sotto il padiglione C, fughe improvvise di operatori sorpresi a fare shopping in centro a Verona e umide passeggiate in riva al lago di Garda.
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