di Gianfrancesco Paci
Era il giugno del 2005.
E l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, aveva un nome nella lista delle figure cui tributare la benemerenza di Cavaliere del lavoro: quello di Dino Illuminati.
Costui non rappresentava nulla di altisonante per coloro che sono attenti alle “paillettes” del mondo del vino.
Ma per chi invece lo conosce da dentro, e soprattutto ne ama la storia, la tradizione e le pieghe prese col passare degli anni, l’allora 75enne, era già un riferimento assoluto: sinonimo di Abruzzo, di Montepulciano e di vino d’eccellenza.
Le origini dell’azienda, in realtà, non sono nemmeno da attribuire a lui. Bensì al suo nonno.
Ecco dunque che veniamo catapultati nel 19’ secolo: proprio in quella antistante provincia ascolana, dove il nonno Nicola, vero e proprio amante e conoscitore dei linguaggi del terreno, dopo aver dato vita a una piccola attività chiamata “Fattoria Nicò”, produceva un rispettabilissimo montepulciano.
Ma i suoi occhi erano inesorabilmente attratti dalle dirimpettaie colline teramane. E quel chicco nero, profondo e succulento, sentiva che se avesse goduto del clima che si vedeva lì di fronte, avrebbe prodotto qualcosa di stratosferico.
Da qui, l’indottrinamento nei confronti del figlio.
Purtroppo Lorenzo, il papà di Dino, è mancato prestissimo. E il Cavaliere, nella sua gioventù, è stato preso e guidato in questo vortice passionale del mondo del vino, proprio dal nonno. Quel fondatore ormai anziano, che negli anni, abbondantemente scavallato il 20’ secolo, premeva in tutti i modi affinchè il nipote spostasse il terreno da cui prendere l’uva, alla zona di Controguerra.
L’acquisto di Dino dei primi ettari vitati nel teramano risale alla fine degli anni ’60. E il destino, che già troppo presto gli aveva portato via il padre, volle che anche il pioniere Nicola non vedesse la nuova azienda “Illuminati” crescere le sue uve. Stavolta, proprio dove egli stesso l’aveva prima sognata e poi pianificata…
Da lì, il cammino verso i tempi moderni è stato lento ma inesorabile.
Solo nel 1991, Daniele Spinelli, esperto di uve e vini, ormai novantenne, è stato rimpiazzato dall’attuale enologo Claudio Cappellacci. Dall’ingresso in “terra teramana”, l’azienda si è sempre avvalsa della collaborazione enologica dello Spinelli, il quale, di concerto con il Patron Dino, ha sviluppato nel tempo un ventaglio di etichette, sempre partendo da una filosofia ben precisa e un’operatività mai invasiva verso tradizioni o caratteristiche ampelografiche autentiche. Controguerra è una delle capitali del Montepulciano. E oggi, l’attenta e scrupolosa professionalità di Cappellacci, mantiene altissimo il vessillo di tali principi.
Qui il Montepulciano è il re e come tale deve regnare in buona parte delle etichette. E per quei prodotti che prevedono lunghi affinamenti o particolari lavorazioni, quando il Padre Eterno decide che l’annata non le può sostenere nel migliore dei modi, si decide senza il minimo indugio di saltarla completamente.
Oggi Illuminati è un nome che contraddistingue non soltanto l’onorevole e straordinaria scelta di una filosofia a monte. Ma anche una varietà di etichette che, nonostante nei numeri siano vendute di più all’estero, porta nei calici dei veri cultori e appassionati italiani, un angolo di piacere superiore. E non si potrebbe, in una stagione in cui il clima non è stato favorevole, provare lo stesso a uscire sul mercato: una flessione della qualità rischierebbe di mancare di rispetto al vitigno, all’etichetta che nell’invecchiamento ne porta alto il nome e infine al Cavalier Dino, che tanto ha fatto per formare l’identità di un nome e in questa filosofia crede, ancora oggi, ottantanovenne, ciecamente.
Come dicevamo, il Montepulciano è al centro, ovviamente, del progetto. E nelle numerose etichette, figlie di attente e professionali declinazioni di Cappellacci e della proprietà, si può incontrare il significato che questo grappolo nero e profondo sa esprimere in questa ristretta lingua di terra.
Riparosso è il punto di partenza, e, anche se negli anni si è sicuramente affinato e raffinato, il sentore di tutti quei profumi di frutta rossa, ma anche allo stesso tempo quella spinta persistente di ciliegia e liquirizia, lo caratterizzano come un vino che definirei “riconoscibile”. Un caposaldo dell’azienda, in cui la tradizione incontra l’interpretazione moderna, ma dove il Montepulciano, quello di questa splendida valle con opposti Mar Adriatico e Gran Sasso, mostra i muscoli e tutta la classe di cui si è rivestito nei decenni.
Vino davvero ben fatto. Semplice e complesso allo stesso tempo. Da pasto con carni rosse o carni bianche lavorate, ma anche da piacevole conversazione.
Le riserve sono tre. Lo storico Zanna, il Pieluni e il Lumen: i primi due sono Montepulciano allo stato puro. Il secondo invece strizza l’occhiolino a un Cabernet Sauvignon, pur sempre in percentuale non superiore a 30, che al sorso, gli permette un ampliamento gusto-olfattivo leggermente ritoccato e che, senza trasformare i sentori autentici del Montepulciano, trasmette un’eleganza molto particolare.
Lumen e Pieluni fanno barriques (rispettivamente 18 e 24 mesi) e successivamente non meno di 14 mesi di affinamento in bottiglia. Sono due grandi vini, e se il business inteso dai proprietari dell’azienda non avesse come focus la qualità e la tradizione, bensì il simbolo del dollaro, non avrebbero problemi a circolare sul mercato a cifre enormemente più alte di quelle alle quali sono concepiti. Acidità ed eleganza vibrano all’olfatto e grazie a una presenza balsamica estremamente intrigante, il caleidoscopio di sentori in retronasale letteralmente esplode.
I matrimoni con carni rosse, tutte le cacciagioni e le lavorazioni degli agnelli locali, oppure qualsiasi elaborazione complessa a base di salse ricercate qui nel teramano molto amate, esaltano entrambe le etichette in modo sensazionale, e proprio grazie all’austerità di questo terreno e della sua storia, forniscono alla degustazione una persistenza fuori dal comune.
Di minore invecchiamento, ma sempre dal passaggio significativo in botti di rovere di Slavonia, il Lumeggio di Rosso e l’Ilico. Parliamo ancora di montepulciano in purezza che con differenti periodi di affinamento in botte, si può cogliere in modo netto e delicato allo stesso tempo nelle sue acute interpretazioni aziendali.
Il metodo classico, ereditato dai tratti definiti dallo storico enologo Spinelli, porta con sé un ottimo gruppo di profumi, tipici del verdicchio, ma soprattutto, nel segreto del suo bellissimo successo, si sono i 3 anni di giacenza sulle proprie fecce prima del remuage…
Nei rosati non può mancare un’interpretazione molto delicata e persistente del Cerasuolo d’Abruzzo. Montepulciano in purezza (manco a dirlo) e acidità ricchissima di profumi (su cui spicca una marasca croccante) e, per essere in terra di vitigno decisamente forte, anche molto morbido. Servito a 12’ può trovare interpretazioni davvero infinite.
Passando ai bianchi, ci colpisce anzitutto un passito. Una muffa nobile davvero intrigante di trebbiano d’Abruzzo e sauvignon che dopo una vendemmia tardiva fa un anno di rovere francese. Colore a dir poco dorato e riflessi ancor più brillanti. Al naso è piacevole, ma al palato è un vero nettare: elegante, dolce ma mai troppo e pieno di rimandi sensoriali che lasciano una persistenza intrigante e quasi malinconica…
Essenziali ma pienamente franchi nella loro riconoscibilità del vitigno sono il Pecorino e la Passerina. Entrambi con le proprie uve in purezza e decisamente interpretati dai fruitori locali in numerosi abbinamenti: dal pesce locale a qualsiasi aperitivo semplice o più ricercato, dal calice per un’insalata di pollo tipicamente estiva a qualche carne bianca con salse non cariche di spezie.
Daniele, Costalupo e Lumeggio di Bianco sono tre bianchi con Trebbiano in percentuale molto più alta e Passerina e Chardonnay intorno al 15%. In tre, a seconda dei diversi periodi di vendemmia e di vinificazione (Daniele viene vendemmiato per ultimo e fa sia fermentazione che vinificazione in rovere di Slavonia con invecchiamento seguente in bottiglia, mentre ad esempio Costalupo ha una selezione a monte di tutte le uve e, senza fare botte, fermenta in serbatoi di acciaio), regalano un’ottima varietà di abbinamenti per numerosi piatti locali.
Zuppe di pesce, minestre, insalate di mare, carni bianche anche con ricercata rosolatura, primi piatti a base di verdure, contorni più o meno speziati… I piatti della tradizione teramana sono davvero tanti e l’interpretazione aziendale, attraverso la coniugazione di queste tre uve nelle suddette etichette, è quella di offrire appunto un’importante esperienza di vino bianco. Partendo ovviamente dal trebbiano locale (purtoppo nei palazzi dei bottoni del vino internazionale fin troppo bistrattato), con vinificazioni ricercate e fermentazioni che arricchiscano il calice di sentori netti, mai a scapito di eleganza e freschezza.
Sperimentale (ma fino a un certo punto visto il successo che sta ottenendo) è il Nicolino. Uve Trebbiano d’Abruzzo, Passerina, Garganega e Verdicchio danno luogo a un vino frizzante dalla lenta fermentazione e dal risultato molto fresco, fruttato e dal notevole perlage.
San Biagio 18 (nome del vigneto in cui si trovano le vigne) è il vino “internazionale”. Qui sono il Semillon, il Viogner e il Sauvignon a regalare un’insolita freschezza.
La fermentazione avviene in serbatoi di acciaio a temperatura controllata e il risultato è nettamente diverso dalle etichette “cugine” di vitigni locali, ma sempre molto elegante e in cui, a mio giudizio, si trova una superiore sapidità e aromaticità. Quest’ultima parte da fruttati anche difficilmente identificabili e si chiude su sentori vegetali innumerevoli e intriganti. Talvolta, soprattutto nel post degustazione, mi ricorda molto l’assaggio di Oli Extra Vergine, con un retronasale che si rivolge tanto a foglia di pomodoro, carciofo, mandolino e legno umido.
Fatto molto bene. Forse apparentemente fuori dal contesto, ma in realtà , come si conviene alle aziende dove c’è sperimentazione e conoscenza enologica di alto livello, frutto di uno studio e di una passione per il vino in generale fuori dal comune.
Aspetti di “internazionalità” che, in fondo, non scalfiscono minimamente il taglio aziendale. Ma soprattutto rispettano appieno l’identità che il patron Dino ha voluto fortemente nei decenni conferire al suo marchio, e a quell’idea, che nel lontano 19’secolo, un visionario da cui ha ereditato sangue e passione, aveva brillantemente avuto.