di Raffaele Mosca
Due passi dalle Alpi Apuane e venti chilometri dal mare, nel mezzo di uno dei comprensori più promettenti della Toscana tutta. Siamo alle spalle di Lucca, in una zona bellissima che in passato veniva soprannominata il “pisciatoio d’Italia” per le troppe piogge e che, invece, in tempi di cambiamento climatico, sta giocando la carta della sostenibilità per emergere sullo scacchiere nazionale. Una terra che, fino a qualche tempo, era principalmente legata alla produzione d’olio: non a caso la villa é appartenuta in passato alla famiglia Bertolli. Di strutture come queste, nel periodo che va dal tardo rinascimento ai primi del Novecento, ne sono state costruite circa 300 dall’aristocrazia lucchese. Tra le più belle ci sono Villa Mansi, Villa Oliva e Villa Reale, che conservano affreschi e arredi di assoluto pregio. Villa Santo Stefano, invece, è più recente, più spoglia, ma si erge sulla cima di una delle colline più alte e offre un panorama mozzafiato sulla vallata.
Villa Santo Stefano nasce – o meglio, rinasce – nel 2001 dopo l’acquisto da parte di Wolfgang Reitzle, manager tedesco che la rimette a nuovo. Inizialmente è utilizzata come residenza di campagna dove trascorrere il tempo libero in tutta tranquillità, ma da cosa nasce cosa e, a distanza di cinque anni dal rogito, vengono rilevati ed accorpati i terreni circostanti e la struttura diventa un’ azienda vitivinicola e olearia. Il millesimo è il 2006, il primo vino esce sul mercato poco dopo: Reitzle ha un debole per i vini bordolesi e per questo la prima etichetta prodotta è un Supertuscan che chiama Loto, perché, nelle vicinanze della tenuta, c’è un lago sulle sponde del quale crescono i fiori di loto. Pian piano, però, la passione per quest’attività cresce, arrivano i primi risultati, e il manager decide d’investire di più, ampliando il parco vigneti, puntando sull’agricoltura biologica e costruendo una cantina avveniristica.
Oggi Villa Santo Stefano è una struttura produttiva e ricettiva a tutto tondo con una dependance adibita a foresteria, la parte centrale della villa dedicata ad eventi e ricevimenti e una cantina sottostante che sembra in tutto e per tutto una “chai” bordolese. A gestirla ci pensano Alessandro Garzi, agronomo e direttore, con l’enologo Alessio Farnesi e Petra Pforr, che si occupa delle relazioni esterne e dell’hospitality. La tenuta si estende per dodici ettari: agli impianti originari di varietà bordolesi su suoli riccamente argillosi si sono aggiunte una vigna di Sangiovese, Canaiolo e Colorino di oltre 25 anni di età e qualche parcella di Vermentino. Tutta la produzione di uva è certificata biologica dall’anno scorso; quella di vino, invece, lo sarà nelle stagioni a venire. Chiedo ad Alessio se il clima umido e piovoso della Lucchesia rende più difficile la rinuncia ai trattamenti. Mi risponde: “ No, perché le precipitazioni si concentrano in inverno e primavera e consentono di avere una certa riserva idrica. L’estate, invece, sta diventando sempre più calda e siccitosa. Fino a qualche anno era obiettivamente difficile fare grandi vini da queste parti, perché pioveva parecchio anche a luglio e agosto, ma al momento abbiamo solo degli episodi temporaleschi che scaricano verso la montagna e vanno a nostro vantaggio. Non c’è bisogno di fare molto per avere uve sane: basta essere sempre pronti a trattare (con zolfo e rame, ndr) nel momento giusto.”
In effetti le Colline Lucchesi sono emerse alle luci delle ribalta dopo un luogo periodo di oblio grazie a Lucca Biodinamica, consorzio di produttori che hanno subito puntato sulla gestione del vigneto e, in qualche modo, hanno “contagiato” anche aziende come questa, che erano partite con un assetto completamente differente. “ “Abbiamo capito che la strada del biologico, della tutela della biodiversità nel campo era l’unica perseguibile – aggiunge Alessio – in precedenza si pensava poco al vigneto, si credeva di poter aggiustare tutto in cantina e lo stile dei vini era giocato sulla tecnica, sulla morbidezza e sull’estrazione. Oggi, invece, la vigna è il nostro focus e penso che questa differenza sia molto evidente nelle ultime annate”.
La gamma aziendale consiste in cinque etichette, di cui una di bianco, una di rosato e tre di rosso. “ La proprietà ha investito tantissimo sulla tecnologia. In cantina abbiamo fermentini tronconici, un sistema all’avanguardia per micro e macro-ossigenazione e follatori su binario per il mescolamento delle vinacce”. Fermentazione e affinamento del bianco e del rosato avvengono in acciaio. I rossi, invece, seguono percorsi diversi: Volo, il vino base, fa solo cemento per circa un anno; Sereno, il vino di mezzo dalla vigna piantata a Sangiovese e autoctoni complementari, è affinato in botti grandi di Garbellotto; Loto passava in barrique per 18 mesi alla maniera bordolese, ma nelle ultime annate si è deciso di accorciare la maturazione in legno e lasciarlo riposare per 6 mesi in cemento.
Le circa 50.000 bottiglie attualmente prodotte su base annua prendono in larga parte la via dell’estero o rimangono tra Lucca e Versilia, ma l’obiettivo a breve giro è aumentare la quota destinata al mercato nazionale. E, in effetti, le credenziali per trovare spazio a Roma, Milano e via discorrendo, alla luce dello sviluppo stilistico dei vini, ci sono. Il Sereno, in particolare, é un Sangiovese molto contemporaneo, appena più ruffiano delle controparti chiantigiane, ma abbastanza versatile nell’abbinamento. Il Volo, invece, ha una beva accattivante, peperina che lo rende “sbicchierabile” in trattorie e wine bars. Il Loto, infine, è massiccio, concentrato, avvolgente come da canone per i vini d’imprinting bordolese: è sicuramente il meno immediato dei tre, ma ha quel tocco d’irruenza tannica tipicamente toscana che lo rende più tonico, meno accomodante e, proprio per questo, più intrigante di altri Supertuscans che tentano di scimmiottare Bordeaux (o il Nuovo Mondo) a tutti i costi.
I vini
Gioia 2020
Da biotipo che dà buoni risultati su suoli molti argillosi, fa solo acciaio, con qualche ora di macerazione pre-fermentativa sulle bucce, e tira fuori aromi diretti, ma non troppo esuberanti, di salvia e anice, mela renetta, zucchero a velo, zeste di limone e un tocco di pietra focaia. E’ snello, asciutto, scattante, con poca polpa fruttata e qualche ritorno ammandorlato sul fondo. La spinta salina è in prima linea e dà slancio a un finale semplice, coerente, privo delle scodate dolci/esotiche di altri Vermentini toscani.
Luna 2020
Sangiovese e Merlot in rosa da un vigneto dedicato, ha un colore chiarissimo da Provenza e disserra profumi di lampone e ciliegia ferrovia, peonia, una lieve idea metallica e un accenno più dolce di pasticceria. E’ più teso, reattivo e anche più corposo del previsto: il frutto abbastanza ricco e maturo è incalzato da una spinta agrumata che allunga un finale discreto, ammandorlato e affumicato.
Volo 2019
Neanche una goccia di Sangiovese in questo vino base: il blend è Petit Verdot, Cabernet Sauvignon, Alicante affinati totalmente in cemento. Il terzo vitigno prende il sopravvento e apporta aromi pepati e piccante – peperone crusco, cumino, erbe disidratate – che incorniciano il frutto ricco, goloso. Il sorso è di medio peso, agile ma non diluito; il tannino un po’ ruspante bilancia le morbidezze tipiche delle uve internazionali e scandisce il finale di buona durata.
Sereno 2018
Veste di media trasparenza e profumo caloroso di visciola e cioccolato fondente, rosa rossa, legno arso e sottobosco. L’attacco è intensamente soffice, fruttato, ma escono subito fuori il tannino vispo e una verve acida che dinamizza l’insieme. C’è anche un tocco di spezia dolce che arrotonda un finale fresco, bilanciato, privo del grip minerale dei migliori Sangiovese d’entroterra, ma lungo e garbato. .
Loto 2018
Cabernet Sauvignon, Merlot e Petit Verdot. Si aggiungerà il Franc nelle prossime edizioni. Il liquido nel calice è inchiostrato e al naso risalta uno spunto terziario – cuoio, terra bagnata, pelliccia – che trascende il solito canovaccio del taglio bordolese, seguito da ricordi di fuliggine e chiodo di garofano, graffione, prugna, qualche idea di legni balsamici e tintura di iodio. C’è una strana nota di viola mammola – quasi da Sangiovese – nell’incipit di bocca e poi tannini incisivi, salivanti che fanno da contraltare al frutto denso, avvolgente, ma non troppo maturo. La tostatura da legno è una presenza discreta, non inficiante, e il solito ritorno ematico ravviva la chiusura equilibrata e profonda. E’ meno composto e serafico del classico vino d’inspirazione bordolese e spinge su durezze che lo rendono decisamente più caratteriale della media.
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