di Antonio Di Spirito
Ripercorriamo la storia del Falernum.
i primi insediamenti nella zona situata tra la piana del Volturno e quella del Garigliano vi furono in epoca quaternaria; dopo il periodo neolitico, quella zona era abitata dagli Aurunci, popolo mite e pacifico, che viveva in villaggi sparsi sul territorio e senza alcuna fortificazione, nonostante le incursioni dei Sanniti. Dopo il 750 a.C., i primi colonizzatori portarono le viti greche allorquando approdarono a Pithecusa (Ischia), a Cuma, a Poseidonia, e dalla Campania si diffusero in Italia e nel mondo.
La Campania nel 7° secolo a. C.
Gli Etruschi consolidarono la coltivazione della vite con il metodo, tuttora utilizzato in alcune zone del Casertano, della “vite maritata” (le famose “alberate” di Caserta): sfruttando, cioè, una pianta “viva” quale tutore (normalmente venivano utilizzati Pioppi, Olivo e Nocciolo). Quelle popolazioni ben presto capirono che migliorare le tecniche di coltivazione di questa pianta significava produrre un frutto dalle caratteristiche assai interessante, dal quale ottenere una bevanda originale, prelibata ed inebriante, anche se veniva considerato un lusso.
I Romani non ebbero troppe difficoltà a conquistare quella regione, che era in posizione strategica, e, nel 296 a.C., fondarono la colonia di Sinuessa, l’attuale Mondragone. Inizialmente la nuova città fu abitata con difficoltà per le continue e reiterate incursioni dei Sanniti; ma, quando quest’ultimi furono sconfitti definitivamente dai Romani, la zona divenne un centro fiorente e pieno di vita, data anche la particolare fertilità della terra e la vicinanza del mare.
Nel secondo secolo a.C. si diffuse la coltivazione della vite soprattutto sulle pendici del monte Petrino e del monte Massico.
In pochi anni, il vino prodotto, il Falernum, conquistò grande considerazione presso i Romani: non v’era banchetto importante a Roma senza il Falerno, che veniva conservato anche per duecento anni. La zona di Sinuessa divenne famosa e molti Romani vi si insediarono costruendo ville e dimore con annesso vigneto. Attraverso la via Appia, il vino raggiungeva facilmente Roma, dove se ne faceva un gran consumo.
Nel 79 d.C., l’eruzione del Vesuvio cancellò Pompei e tutti i vigneti circostanti, per cui il Falernum arrivò ad avere un prezzo altissimo, tanto che, nel 89 d.C., fu necessario un Editto per calmierarne il prezzo.
Secondo numerosi autori romani i due vini più pregiati erano il Cecubo ed il Falerno, e Plinio consigliava “antea caecubum postea falernum”.
L’Ager Falernus
In effetti molti vini come il Caleno, il Faustiniano, il Trebulano, il Caucino, il Petrino, il Razzese, lodati da Orazio, Virgilio, Catone e Plinio, provenivano tutti dalla stessa zona: l’attuale provincia di Caserta. Sostanzialmente Plinio riconosce tre varietà fondamentali di Falernum rispetto alla struttura: il tipo austero e discretamente amaro, il tipo secco e tenue ed il tipo denso e dolce. Inoltre, differenziava i vini anche in base all’esatta collocazione del vigneto ed alle caratteristiche della zona di provenienza: Caucinum (Altocollinare), Faustianum (Pedecollinare) e Falernum (Pianura). Duemila anni fà il microclima era un fattore di qualità unico e non esportabile; le stesse uve coltivate in altre zone, non davano la stessa qualità. Questo è, in effetti il concetto di “terroir” e di “crus” che i francesi hanno applicato al vino quasi duemila anni dopo.
Determinante, poi, era l’andamento climatico dell’annata: se, durante la vendemmia, il vento proveniva costantemente da sud, si determinava una forte concentrazione degli zuccheri e, quindi, se ne otteneva un vino scarico di colore (paglierino scuro) e di sapore molto simile allo sherry.
Nel primo secolo d.C., con la costruzione della via Domitiana (altra importante via di comunicazione), raggiunse il massimo splendore. I vini della zona di Sinuessa venivano conservati e trasportati con anfore prodotte essenzialmente a Cales ed a Capua, venivano chiuse da tappi muniti di apposita targhetta (pittacium), che riportava il nome del produttore e ne garantiva la provenienza e l’annata (può essere considerato il primo vino a DOC) e venivano esportate in tutto il Mediterraneo: anfore di Sinuessa sono state ritrovate in tempi moderni, insieme a monete romane dell’epoca, ad Alessandria d’Egitto, Cartagine, in Spagna, ed in Gallia (Francia), in Bretagna, in Danimarca e, perfino, nel delta del Mekong in Indocina.
Per Orazio il Falernum era il vino del fuoco e Persio lo definiva “indomito”; certamente si prestava molto bene all’invecchiamento e si consigliava di consumarlo dopo almeno 15 anni. Petronio Arbitro racconta che, durante la famosa cena di Trimalcione, gli haustores, (gli antichi sommeliers, che dovevano controllare la qualità del vino e stabilire le dosi di acqua per diluirlo) servirono un Falernum vecchio di 100 anni.
Da giovane, come tutti i vini dell’epoca, era molto aspro e tannico da non poterlo bere. Oltre al forte tannino che sviluppava, ricordiamo che l’uva veniva pigiata con i piedi e non veniva diraspata; i metodi di vinificazione non erano certo quelli raffinati di oggi; per cui si facevano vini che, oltre ad essere eccessivamente tannici ed aspri, sicuramente avevano valori di acidità acetica molto alta: tra 1,0 e 2,0 per 1000, almeno il doppio dei valori attuali. Spesso al vino veniva aggiunta acqua di mare (allora non era inquinata): il sale in essa contenuto serviva a far precipitare l’eccesso di acido tartarico contenuto nel vino. Visti gli alti costi raggiunti dal vino di qualità, venivano prodotti dei surrogati: la “Lora” veniva prodotta dopo la svinatura, aggiungendo acqua alle vinacce e se ne sfruttava la residua fermentazione per ottenere un vinello di pronta beva; la “Posca”, invece, era una miscela di acqua e vino inacidito, il quale veniva comunque utilizzato.
Nel 375 d.C., in seguito ad un forte terremoto prima e per le continue invasioni barbariche, gli abitanti si rifugiarono sulle pendici del monte Petrino e del monte Massico. Il Falernum rimase comunque famoso grazie anche alla scuola medica salernitana e, durante il 1800, subì una grossa decimazione a causa della fillossera.
I sulci fossili della vite di Falciano
Negli ultimi anni del secolo scorso, durante gli scavi per la costruzione di una strada panoramica a Falciano del Massico, lungo uno dei fianchi del monte Massico, è stato rinvenuto un vigneto fossile risalente all’età imperiale romana. Il rinvenimento consiste in una serie di 15 Sulci (filari) paralleli, alla distanza costante di 2,70 metri, e nei quali sono stati ritrovati, come riempitivo di drenaggio, frammenti di ceramica fine prodotta verosimilmente in Africa.
Dai fossili di vite e dai pollini ritrovati nel terreno circostante, si è risaliti agli alberi utilizzati come tutore. Inoltre, si è capito anche che le viti venivano annaffiate, perché sono state ritrovate le alghe che si formavano vicino alle viti. La concimazione veniva effettuata con avena e fave per il ricambio dell’azoto.
Il Falerno dal 1800 ad oggi
La Denominazione “Falerno”, oggi, ammette un vino bianco e due vini rossi.
Il vino bianco è generalmente giallo paglierino con riflessi verdognoli, fresco ed aromatico, vinoso, gradevole, asciutto e sapido ed è prodotto con uve falanghina, vinificate in purezza.
A memoria dei “nativi” si narra che nel 1850, il barone Falco, terminata la sua carriera di Notaio in quel di Andria, rientrò nel suo paese d’origine, in zona Falerno, ed impiantò un vigneto con un vitigno portato dalla Puglia: il primitivo. Quindi, al tipo di vino tradizionale prodotto con uve di aglianico e piedirosso, si è inserito nella tradizione il tipo prodotto con uve di primitivo.
Le trattative per addivenire ad un compromesso che ammettesse le due “scuole di pensiero” (aglianico e primitivo) furono lunghe e laboriose; e, così, la DOC fu istituita solo nel 1989.
La versione da aglianico tende al granato con l’invecchiamento, è caldo, asciutto, robusto ed armonico ed il disciplinare stabilisce la seguente composizione: aglianico (60-80 %), piedirosso (20-40 %), primitivo e barbera (max 20 %) ed una gradazione alcolica min. di 12,50%.
La versione da primitivo è è di colore rosso rubino molto intenso dal sapore vinoso, pieno, leggermente abboccato ed il disciplinare stabilisce la seguente composizione dei vitigni: primitivo (min. 85 %), aglianico con piedirosso e/o barbera (max 15 %) ed una gradazione alcolica min.: 13%.
L’area di produzione è estremamente limitata, comprende solo 5 comuni, tutti in provincia di Caserta: Sessa Aurunca, Cellole, Mondragone, Falciano del Massico e Carinola.
* Il Falerno del Massico Rosso, se invecchiato per tre anni, di cui uno in botte, può riportare in etichetta la dicitura riserva.
** Il Falerno del Massico Primitivo, se invecchiato per non meno di due anni, di cui uno in botte, può riportare in etichetta la dicitura Riserva o Vecchio.
Recentemente Giuseppe Nocca, Agronomo, già Professore Emerito di Scienza degli Alimenti, Umanista nell’animo e cultore di lingue classiche, autore di molti libri su archeogusto, archeonutrizione, nonché dei vini e degli usi enologici dell’antica Roma, ha pubblicato un libro sul vino più famoso e più amato dai Romani: “FALERNO – Il vino dei Cesari”.
Il libro è stato presentato lo scorso mese di ottobre, proprio a Villa Matilde, insieme al giornalista Luciano Pignataro (moderatore dell’evento) e della Dott.ssa Marisa De Spagnolis (che ne ha scritto la Premessa). Il lavoro, ricco di citazioni di cronisti e letterati latini che in qualche modo hanno celebrato il vino, traccia la storia del Falerno dalle origini ai nostri giorni.
L’opera è stata dedicata a Maria Ida Avallone, riconoscendo a lei ed alla famiglia intera il merito di aver riportato in auge i vini ed un territorio dal glorioso passato.
Francesco Paolo Avallone, padre di Maria Ida e Salvatore, gli attuali conduttori dell’azienda, era assistente alla cattedra di Istituzioni di diritto romano all’Università di Napoli e grande appassionato della civiltà romana. Dedicò molto tempo e risorse, raccogliendo testimonianze e vitigni, per recuperare la vitivinicoltura nell’Ager Falernus e “ripristinando un rinnovato interesse ad una zona che aveva conosciuto un lungo ed ingrato declino”. Nel 1965, infatti, l’avvocato fondò la cantina che oggi si chiama Villa Matilde.
L’azienda si sviluppa in due siti; quella tradizionale è situata nel territorio dell’Ager Falernus e possiede oltre 110 ettari, di cui 70 vitati, lungo le pendici del vulcano spento di Roccamonfina, nell’area più a nord della provincia di Caserta.
I vitigni a bacca rossa maggiormente coltivati, sono: aglianico, piedirosso e primitivo; mentre per i vini bianchi viene utilizzato sostanzialmente la falanghina, destinata soprattutto alla produzione del Falerno Bianco e del Vigna Caracci.
Nella provincia di Avellino, l’azienda possiede oltre 25 ettari di vigneti dislocati nelle varie denominazioni e che ruotano intorno alla Tenuta di Pietrafusa. I vitigni allevati in Irpinia sono i tre tipici vitigni diffusi in quella zona (aglianico, greco e fiano) per produrre Taurasi, Greco di Tufo e Fiano di Avellino.
L’azienda ha intrapreso, da pochi mesi, un progetto che è sostanzialmente il proseguimento di un percorso iniziato alcuni anni orsono, quando si è convertita alla conduzione biologica dei vigneti; oggi quel percorso viene implementato verso una conduzione biodinamica. All’occorrenza sono stati ingaggiati due agronomi (ma anche enologi) che hanno maturato esperienze significative in quel campo, Gennaro Reale e Sebastiano Fortunato, i quali si sono immediatamente integrati nel gruppo di lavoro esistente, di per sé altamente qualificato. Il percorso di conversione intrapreso prevede di entrare a regime nel 2025, anno in cui cade il centenario della nascita del fondatore dell’azienda: Francesco Paolo Avallone.
Il progetto totale prevede, per quella data, anche il raggiungimento di alcuni altri obiettivi molto importanti: il completamento dei lavori di ristrutturazione di una importante struttura alberghiera a Napoli, già operativa; l’apertura di una nuova struttura ricettiva nell’isola di Procida; la messa in commercio di una riserva “top” di aglianico in bottiglie magnum dedicata al fondatore
Di seguito riporto le impressioni di assaggio di alcuni tra i più rappresentativi vini aziendali; gli assaggi sono stati effettuati nel mese di settembre 2022, quando molti di essi erano poco più che campioni di botte; ma non di rado si può degustare qualche annata molto vecchia.
Baia VSQ Brut
Le uve, falanghina del Massico, sono prodotte nei vigneti di Cellole e Sessa Aurunca: E’ un recente progetto dedicato all’Isola di Procida, in particolare alla Baia della Corricella, ed ai suoi colori. L’etichetta viene proposta in quattro colorazioni differenti: bianco, rosa, giallo ed azzurro. Il vino viene spumantizzato con metodo Martinotti: 12 mesi in autoclave per una lunga presa di spuma! Il risultato è inaspettato e sorprendente: fiori bianchi e profumi di erbe aromatiche: salvia, rosmarino, finocchiella e macchia mediterranea; lievi i profumi di frutta esotica ed agrumi. Al palato sfodera un’acidità elevata e tagliente; ha sapori di frutta gialla, melone ed agrumi; è sapido, speziato e molto scorrevole; persistente e piacevole!
Mata Rosè 2012 Cuvée de la Famille
Spumante Metodo Classico prodotto con uve falanghina tenuto in sosta di maturazione sui lieviti per 120 mesi; la lunga permanenza sui lieviti si traduce in un effetto spuma molto esuberante e persistente. E’ intensamente floreale al naso, con note di frutta esotica qualche foglia di erba aromatica e note di macchia mediterranea; al palato porta sapori di frutta a pasta gialla ed agrumi, è sapido e molto fresco: un ottimo vino elevato a “bollicina”.
Vigna Caracci 2018 – Falerno del Massico D.O.P.
Vigna Caracci è un piccolo vigneto di circa 4 ettari sulle colline di San Castrese dove il terreno, di colore rossiccio, contiene molti minerali, fra cui fosforo, silicio e potassio. La vigna fu impiantata nel 1965, ma questo vino è stato prodotto per la prima volta nel 1989 con uve falanghina, biotipo Falerna di Vigna Caracci. Dopo la criomacerazione, il pigiato viene avviato alla fermentazione: la maggior parte in anfore di terracotta da 150, 300 e 500 litri; il resto, una parte in barrique di Allier ed una piccola parte in acciaio. Dopo tre mesi, il vino viene assemblato ed inizia un lungo affinamento in bottiglia.
Al naso offre tanta buona frutta a pasta gialla, salvia e note balsamiche; al palato l’attacco è sapido, la beva è ampia di sapori fruttati, scorrevole e sorretta da una notevole acidità; la chiusura pulita, precisa e leggermente amaricante, lascia il palato pulito e pronto ad un altro sorso.
Daltavilla 2021 – Greco di Tufo 2021 D.O.C.G.
Le uve greco sono coltivate nelle tenute di Pietrafusa e precisamente dai vigneti locati nei comuni di Altavilla Irpina, Tufo e Santa Paolina; i terreni sono tufacei con argille marnose e sulfuree e le viti sono state impiantate tra il 1956 ed il 1980. Dopo una soffice pressatura il mosto fermenta e matura in acciaio per 4 mesi, per affinare, poi, altri 4 mesi in bottiglia. Molto tipico al naso con tanta frutta esotica a pasta gialla, cera d’api, pasta di nocciole, salvia e foglie d’agrumi; il sorso è si ampio di sapori fruttati, ma molto dinamico e dotato di una notevole acidità rinforzata da una nota tannica; un tocco di speziatura, intensa sapidità e tanta mineralità allungano la persistenza in bocca.
Falerno del Massico 2018 DOP
Blend di aglianico e piedirosso, prodotto con uve provenienti da un unico vigneto posto alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina, nella tenuta di San Castrese. Al naso si caratterizza soprattutto con le peculiarità floreali e fruttate del piedirosso: rose, gerani, piccoli frutti neri, leggera nota agrumata e note affumicate, tipiche del territorio. Il sorso è fruttato e pieno; il tannino è poderoso e, inizialmente, sovrastante, comunque vellutato; poi l’acidità ed i sapori di frutta rossa ed agrumi, danno una scossa di scorrevolezza e piacevolezza.
Pietrafusa 2016 – Taurasi DOCG
Le uve di aglianico, provenienti dalla tenuta di Pietrafusa in vigneti posti a 350 metri di altitudine. Non esuberante, ma molto tipico al naso, con i classici profumi di cerase nere, arancia sanguinella, cenere e qualche nota balsamica; al palato è saporito e ricco, comunque armonico e vellutato; ha buona freschezza, è sapido e speziato; un sorso veramente equilibrato.
Fusonero 2015 – Taurasi DOCG
Questo vino è il risultato di un blend in cui concorrono due zone con caratteristiche molto diverse: Montemarano rappresenta il Taurasi dal corpo possente, mentre Paternopoli impersona il Taurasi più elegante. Ha tempi di maturazione più lunghi; infatti l’annata 2016, prudentemente non ancora in commercio, non è pronto, troppo austero e chiuso. L’annata 2015 presenta segni di gioventù più accentuati del Pietrafusa. Molto fruttato e fragrante al naso con profumi di ciliegia ed arancia sanguinella, accompagnati da leggere note balsamiche e fumé; il sorso è pieno, fruttato e scorrevole, ha un tasso di acidità elevato, è speziato ed asciutto; molto equilibrato.
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