Taurasi Quintodecimo di Luigi Moio. Nelle due precedenti schede in cui abbiamo parlato di questo vino abbiamo affrontato due temi: il primo, di tipo gastrogrillino, sul prezzo. Il secondo sul confine impalbabile e difficile da definire tra la tipicità e la leggibilità internazionale di questo Taurasi. Mi ha molto colpito, rileggendole, le parole di Luigi Moio che riporto anche qui sopra “Vedi – dice Luigi – questo vino possono capirlo anche colro che sono abituati ai grandi francesi perché ritrovano la pulizia, i tannini dolci e levigati, la giusta acidità. Al tempo stesso però ha la sua specificità marcata proprio nel ruolo principale svolto dai tannini, marcati ma non fastidiosi o asciuganti”. E in effetti proprio la situazione che si è creata ieri sera in cui ciascuno di noi ha portato da bere al Line Wine Bar di Salerno: la magnum che ho preso dalla mia cantina dove riposava da almeno otto anni ha dato il meglio di se in questa compagnia.
Bene, batteria di bianchi e di Champagne a parte, tra Pauillac e Borgogna, Fiorano 2013 e Turriga 2004, il tema non era quale fosse più buono anche se poi ciascuno ha ovviamente la sua personale classifica. No, la questio della serata era se ci fosse una linea di continuità o di discontinuità tra vini così diversi fra loro ma importanti e se il Quintodecimo fosse apprezzato per la sua diversità o, piuttosto, per la sua capacità di competere ad armi pari nel palato. Inutile dire che la cosa è andata proprio in questa direzione: l’estrema pulizia dei tannini che non lascia spazio all’amaro verde che tanti danni fa all’Aglianico, il meraviglioso rapporto perfettamente centrato tra il legno e il frutto, ancora croccante e fresco, la spinta acida e la chiusura lunga e infinita hanno fatto fare una gran bella figura e risolto d’emblée anche la questione del prezzo perché quando si è abituati a spendere per la qualità il Quintodecimo alla fine costa come un buon Aoc ed è conveniente economicamente. Un po’ come è stato per il Montevetrano che ha dovuto affrontare a suo tempo le stesse critiche.
Certo, poco più di tremila bottiglie disegnano a questi vini un successo assicurato ma, attenzione, non scontato.
Quanto all’Aglianico e al suo rapporto con il tempo, abbiamo avuto già modo di scriverne: non si ha notizia di bottiglie che abbiamo ceduto all’ossidazione se ben lavorate e ben conservate.
Ma cosa fa di questo Quintodecimo un grande vino? Beh, in primo luogo dobbiamo dire da una vendemmia che tutti gli enologi amano perché pur essendo stata una annata calda è stata climaticamente coerente e non ha creato grandi problemi di gestione nè durante lo sviluppo delle piante e nè tantomeno durante la raccolta. Una annata perfetta che ha spesso messo in evidenza il frutto, la ciliega. ben matura. Parliamo di un vero e proprio cru di due ettari di aglianico, ottenuto dall‘omonima vigna adiacente alla casa cantina, piantata nel 2001 sul versante nord-ovest a 420 metri. Il suolo è costituito da rocce argillose ricche in calcare. Prima di andare in bottiglia il vino sosta in barrique nuove dai 18 mesi ai due anni. Attenzione, non viene prodotto tutti gli anni: dopo la prima uscita del 2004 sono seguite 2005 – 2007 – 2009 – 2010 – 2011 – 2012 e 2014.
Una degna fine per questa magnum dunque, che alimenta la leggenda di Quintodecimo e che ci lascia però senza risposta alla domanda che ogni appassionato di grandi vini si pone in questo caso: come sarebbe stata fra altri dieci, venti anni? Ai posteri e a chi la capacità di conservarle la risposta.
Ultima osservazione: sarà un caso che anche Antoine Gaita, diametralmente opposto a Moio ma di cui ha seguito i corsi di Enologia, ha prodotto due Taurasi (Pater Nobilis 2007 e Libero Pensiero 2008) concentrandosi quasi esclusivamente sui tannini e ottenendo un rosso elegeante e bevibile?
Scheda del 24 ottobre 2014. C’è una idea che ha sempre fatto molto male alla buona agricoltura del Sud. Cioé il luogo comune secondo il quale quando un prodotto, vino, olio, formaggio e quant’altro, viene dall’ex Regno delle Due Sicilie debba necessariamente costare poco. Naturalmente questa percezione, falsata, viene dalla proiezione che ciascun territorio riescea dare di se: nessuno vi dirà mai che un Premier Cru costa troppo, o che un Brunello o finanche un Sassicaia hanno prezzi proibitivi. L’osservazione, invece, va in automatico se parliamo dei grandi vini del Sud. Una litania con la quale ha dovuto a lungo convivere Silvia Imparato del Montevetrano, percepita come low cost all’estero ma cara, carissima in Italia e soprattutto in Campania. Poi Salvatore Molettieri con il suo magnifico Taurasi Vigna Cinque Querce. Adesso da qualche anno tocca ai vini di Quintodecimo. Ora che questa osservazione venga fatta dalla corrente neopauperista ci può anche stare, ma quando viene da autorevoli critici lascia la bocca amara. Perché un Aglianico coltivato in proprio, fatto sostare quattro anni prima di essere venduto, elevato in un’azienda che perfetta è dire poco con agricoltura ecocompatibile dovrebbe, per principio, costare meno di un Ornellaia, di un Quintarelli o di Gaja? Boh! A stabilire se un vino costa molto o poco dovrebbe essere il mercato e i fatti parlano chiaro: i vini di Moio, come il suo splendido Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2007 finiscono. Quest’anno per la prima volta la Falanghina 2013 non riuscirà ad arrivare al Vinitaly 2015 e forse neanche sarà presentata alle guide per questo motivo. Sono i russi che li bevono? Mica tanto, almeno se ascolto quello che mi dicono i ristoratori e i sommelier della Campania: tra i consumatori ci sono anche gli appassionati campani che spendono volentieri una cifra importante per un motivo semplice: sanno cosa trovano quando stappano. Non altrettanto si può dire di tanti vini popputi degli anni ’90 . Suvvia, un po’ di orgoglio per chi lavora bene non ha mai fatto male a nessuno.
Assaggio del 15 giugno 2013. Qual è il punto di equilibrio tra la difesa identitaria della tipicità e la necessità di produrre qualcosa di leggibile a chi non è mai stato nel tuo territorio?
Bella domanda a cui nessuno potrà dare risposta perché entrambi gli elementi variano in continuazione. Cosa è, infatti, la tipicità in un territorio che ha poco più di vent’anni di viticoltura moderna? La barrique? L’acciaio? I lieviti selezionati? Il legno grande? Il vino che si beveva nelle case per autoconsumo? Quello affermato commercialmente?
Al di là delle mode e delle folate di appassionata religiosità che spazzano la superfice, ripeto la superfice, del mondo del vino, in realtà alcune risposte precise ci sono. Per Luigi Moio il miglior risultato possibile è calibrare l’esperienza elaborata in un paese enologico maturo come la Francia coniugando stile bordolese a monovitogno borgognone sulle necessità di una frutta coltivata nel miglior modo possibile.
A differenza delle leggende sugli enologi, vere soprattutto su quelli di vecchia generazione costretti a lavorare grandi masse e dunque chiamati ad aggiustare i guai fatti in campagna dai contadini, per capire Moio è necessario partire dalla vigna, maniacale e perfetta. Poi sui trattamenti dell’uva prima della fermentazione alcolica, le due linee separate tra bianco e rosso, l’arrivo di un grappolo alla volta e non di una cassetta, il diraspamento totale, l’eliminazione degli acini da cui spesso si estraggono oli ossidanti durante la lavorazione.
L’obiettivo è nel bicchiere del Vigna Quintodecimo 2007, decisamente migliorato rispetto all’ultimo assaggio, che regala immensa eleganza al naso attraverso la realizzazione di una perfetta fusione tra e note fruttate e quelle del legno, appena balsamico e son rimandi alla liquirizia e al rabarbaro. Si tratta di un naso imponente, lungo, intenso, ampio e cangiante nel corso della beva.
Ma la prova vera per me viene superata in bocca: si sa che Moio, studioso degli aromi, con il naso non sbaglia mai riuscendo a trasmettere sensazioni rasserenanti sin dal primo approccio. Pensiamo poi anche a un po’ di tabacco, di agrumato da scorza di arancia matura, legno bruciato.
E’in bocca, dicevo, che l’impianto del Taurasi si fa valere con autorevolezza: l’attacco non è dolce, la punta della lingua è completamente bypassata dall’affermarsi di una dissetante acidità laterale che spinge il vino verso la gola dopo averlo disteso al centro lingua.
Qui ripartono le note fruttate e balsamiche percepite all’olfatto che restano dominanti in questa fase di esistenza del 2007, annata che sappiamo essere molto generosa di frutta. Tanto generosa da essere stata in grado di mettere a posto tutti i legni possibili e immaginabili.
Il finale è appagante. “Vedi – dice Luigi – questo vino possono capirlo anche colro che sono abituati ai grandi francesi perché ritrovano la pulizia, i tannini dolci e levigati, la giusta acidità. Al tempo stesso però ha la sua specificità marcata proprio nel ruolo principale svolto dai tannini, marcati ma non fastidiosi o asciuganti”.
Un Taurasi dunque di gran classe, che nasce sul suolo argilloso di Quintodecimo in attesa della nascita del secondo cru, il Grande Cerzito, che ha la vigna piantata su suolo vulcanico. Il progetto del professore dunque prevede due cru, un rosso che chiamarlo base è poco, e i tre bianchi classici campani ciascuno proveniente dalla stessa vigna di proprietà.
Purtroppo non posso non anticipare la questione del costo perché è un tema che galleggia quando si parla di questo vino. Premesso che niente costa troppo quanto l’agricoltura è ben fatta, tra l’altro in via di certificazione biologica, l’unico parallelo che mi viene spontaneo è questo: se un abito di Kiton fatto a mano costa 4000 euro, una bottiglia di Taurasi a 100 euro è ben venduta. Per chi acquista.
Qui la prima scheda del vino scritta nel 2007
Il punto di vista di Antonio Galloni
Sede a Mirabella Eclano, via San Leonardo. Tel. 0825.449321 www.quintodecimo.it Ettari: 15 di proprietà. Bottiglie prodotte: 50.000. Vitigni: aglianico, fiano, greco, falanghina
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