
Il destino ci fa incrociare questa bottiglia sempre in occasioni straordinarie, particolari. Quasi che le condizioni ambientali possano in qualche modo valutare questo straordinario bianco. Siamo da Abraxas, l’osteria di Pozzuoli di Vanna e Nando Salemme da sempre punto di riferimento per gli amanti del buono e della cultura gastronomica delle radici presentata al passo dei tempi che cambiano.
Il locale è chiuso e con un gruppo di amici decidiamo per un pranzo di auguri, il classico pranzo del Sud che inizia alle 14 e finisce nel buio pesto della giornata corta invernale, quando il sole smette di riscaldare i laghi vulcanici e il mare dei Campi Flegrei. Ciascuno con una bottiglia particolare, con una storia da raccontare, così come avviene per le bevute che abbiamo fatto e Nando mette subito il Villa Diamante sul banco, attorno ad un braciere che riscalda all’aperto come le lampade moderne dei dehors di città non sono in grado di fare, creando l’atmosfera adatta per questo straordinario 1998.
Si tratta del secondo anno realizzato da Antoine rientrato con la moglie Diamante dal Belgio dove, entrambi figli di emigranti, si erano conosciuti e sposati. Antoine ha una testa francese e di fronte al Fiano non ha dubbi, porta in surmaturazione le uve avendo cura però di conservare la freschezza e usa il legno per l’affinamento. Una decisione che dall’anno successivo, il 1999 cambierà a favore dell’acciaio. La sua è una agricoltura biologica ante litteram, a quei tempi si parlava appena di queste tematiche. Altra novità, pioniere insieme ad un altro fianista, Guido Marsella, decide di presentare il proprio vino sul mercato un anno dopo l’uscita. Erano tempi in cui il bianco doveva essere d’annata per ristoratori e consumatori. Proprio giocando su questi semplici fattori Antoine Gaita, scomparso poi prematuramente nel 2014, ha creato una serie incredibile di Fiano di Avellino dimostrando a tutti le enormi potenzialità di questa uva se ben trattata e rispettata. Sin da subito la 1998, ancora vino da tavola per motivi burocratici, si impone per l’alta qualità e, durante tutte le numerose degustazioni che abbiamo avuto la fortuna di fare, migliora di anno in anno, di decade in decade.
In questa Antivigilia di Natale si presenta assolutamente integra, un tappo perfetto, ma ormai sono tante le sperimentazioni che abbiamo fatto in questi trent’anni di passione per il Fiano che la cosa non ci stupisce. Siamo invece travolti da una energia potente, una voglia di vivere che il vino esprime sin dal primo sorso, con un naso molto complesso che passa dai sentori di pasticceria alla frutta a pasta gialla matura, dallo zafferano alle note fumè e di idrocarburo. Il naso, dolce e ammiccante, suadente, viene ribaltato da un sorso sapido, pieno, con una chiusa lunghissima che lascia il palato non stucchevole.
E’ una beva emozionale, che ci fa viaggiare nel tempo e nello spazio. E’ una beva nostalgica, delle belle esperienze che abbiamo avuto la fortuna di vivere. E’ una beva ottimista perché sicuramente le nuove generazioni di viticoltori sapranno trarre insegnamento da questa esperienza e faranno vini memorabili.
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scheda del 29 aprile 2018
Poter bere un bianco come questo dopo 20 anni non è una fortuna, ma un privilegio. Lo dobbiamo alla passione di conservare le cose di Peppe Misuriello che ha da poco assunto la gestione di Locanda Severino. Grassezza, complessità, note di frutta evoluta insieme a idrocarburi, fumé, zafferano, palato pieno, piacevole sapido con chiusura amara. Un vino che ha sicuramente trovato il suo equilibrio a distanza di due decenni. Certo, l’Irpinia non sarà mai la Borgogna, ma avrebbe potuto, potrebbe, esserlo, per la qualità del Fiano e per le capacità di esprimersi nel tempo quando si parte con il giusto progetto sin dalla vigna. La nostra anarchia mentale non consentirà mai di arrivare a classificazioni rigide e a protocolli precisi, basti pensare alle difficoltà di formare un consorzio ecumenico in grado di rappresentare tutti o quasi tutti.
Restano grandi solisti come Antoine, anche lui anarchico individualista intendiamoci, che però ha dimostrato sino a che vette potessero arrivare i vini bianchi prodotti con il Fiano. Sono sicuro, non è campanilismo, che inserendo questo 1998 in una qualsiasi batteria di Chardonnay borgognone avrebbe fatto la sua grande figura.
Occasione persa? Non è mio mestiere essere pessimista e di natura sono invece ottimista: sono convinto che il Fiano di Avellino man mano che passa il tempo continuerà la sua ascesa, a tre condizioni: uscire in ritardo di almeno due, tre anni; sperimentare l’uso del legno; individuare bene i cru.
Sembra facile, ma non lo è. Eppure questa è l’unica possibilità per portare queste bottiglie che già si vendono sopra la media dei bianchi a vette impensabili.
Siamo realisti, chiediamo l’impossibile. Nel ’68 come nel 2018!
Scheda del 15 gennaio 2017. Forse un segno dell’età è quello di trapassare dall’esibizione di poter bere quello che altri mai potranno fare all’egoismo di averlo bevuto da soli. Una sensazione strana si è infatti impadronita di me quando abbiamo iniziato a sniffare sul bicchiere, fresco, legno quasi volatilizzato lasciando come traccia qualche nota balsamica e tostata: che bello, che privilegio, ho pensato, poter assaporare questa grande opera che nessuno potrà mai replicare, vuoi perché siamo ormai a vent’anni quasi da quella stagione che ha figliato in genere vini poco snelli. Vuoi perché l’autore di queste esecuzioni non c’è più.
Questo è il vino: condivisione ma anche no, socializzazione ma pure senso di esclusione. Ed è in questa virata dalla bolina al lasco, quando decidi che è il vento che ti deve portare e non devi essere più tu a doverlo tagliare con astuzia, che cambia anche l’atteggiamento nei confronti dei grandi vini. Sorridi delle prime zuffe sul web in cui ciascuno rivendicava una primogenitura, ma anche delle esibizioni di bevute impossibili e irripetibili che non raccontano condivisione ma noioso celodurismo virtuale.
In fondo, quel che davvero conta, è solo assaporare questo Fiano in giusta compagnia, magari capace di comprenderlo anche meglio di te, mentre fuori l’inverno occupa la scena della campagna: le viti riposano, gli olivi resistono, i mezzi agricoli sono fermi sotto la neve.
Solo il vino riesce a collegare il giusto stato d’animo che ti regala una bella cucina, la sicurezza del tepore di un locale in cui scorre sangue giovane, proprio come è vibrante, sapido e fresco il palato durante la beva, con lo spettacolo di una natura ostile che si riprende la scena.
Adesso Antoine conosce il mistero della vita che ha tanto indagato con questi vini. Cerchiamo di seguire le sue intuizioni, la sua solitudine in un momento in cui tutti avevano imparato a suonare i piattini. Come sfogliare un diario post mortem, rileggere le mail di una persona scomparsa, ascoltare i racconti di chi ha conosciuto una persona a te cara.
Ecco, ipocritamente potremmo declamare: peccato che sia andato via, chissà quante altre cose buone ci avrebbe fatto bere.
Invece diciamo: che grandi vini ci hai lasciato, proveremo a berli tutti invece di farli bere agli altri.
Ecco, questo è sano egoismo.
Scheda del 19 gennaio 2015. La settimana scorsa è stata triste per la viticultura irpina e italiana perchè siamo stati costretti a dire addio ad Antoine Gaita, uno dei protagonisti della rinascita del Fiano di Avellino.
Il destino ha voluto che l’avevamo iniziata all’insegna del rinnovato stupore e ammirazione per il suo lavoro durante una magnifica cena al Palagio del Four Season di Firenze, il ristorante gestito con precisione e la giusta dose di creatività da Vito Mollica, cuoco lucano di Alvignano con esperienze maturate in Italia e nel Mondo.
Una cena nella quale ogni commensale ha portato una bottiglia da casa, sicché Sabino Berardino, medico gourmet irpino trapiantato in Toscana, ha esibito due magnifici pezzi di antiquariato reperiti sul web, il Coda di Volpe 2006 di Michele Perillo e il Vigna della Congregazione 1998 di Antoine Gaita, all’epoca appena tremila bottiglie lavorate in acciaio e legno etichettate come vino da tavola perché il vigneto non era ancora formalmente iscritto alla doc (la docg è del 2003).
Era un bel po’ che non bevevo questo vino di cui ci dovrebbe essere ancora qualche bottiglia all’Oasis, ma devo dirvi che è stata una esperienza magnifica su una batteria di piatti incredibili, e cito il «risotto alle castagne e tartufo nero con terrina di lepre in civet», il «piccione di Assisi con mostarda di frutta», la «quaglia farcita ai fichi con crema di sedano rapa e foie gras scottato».
La 1998 se bevuta in verticale di Villa Diamante completa, cioè con il confronto di altre annate, viene superate da alcune esecuzioni fenomenali che per me costituiscono il top, cito Vigna della Congregazione 2005, 2010 e 2011 che sicuramente dureranno più di una vita. Ma nel frattempo vi trasferisco non solo l’assoluta giovinezza del Fiano offerto generosamente dal dottor Berardino, ma anche il naso poliedrico, agrumato, appena leggermente fumè, con zafferano, salvia e pesca sciroppata oltre che note rinfrescanti di menta. E poi il palato sapido, freschissimo, ampio e profondo con una chiusura incredibile. Un vero completamento dei piatti, tutti giocati ovviamente su grassezza e morbidezza. Per dirvi dunque che l’abbinamento perfetto esiste solo quando mettete una grande cuoco di fronte ad un grande vigneron.
Scheda del 22 ottobre 2007. Con il primo freddo ho fatto una mossa tranquillizzante: sono andato subito in Irpinia dove lo scorso inverno si è vissuta una stagione quasi tiepida come sulla Costa. La sferzata dell’acqua gelida, le montagne del Terminio e del Partenio finalmente innevate hanno rassicurato il mio nervosismo inconscio, biologico, maturato in febbraio e marzo assurdamente caldi e pericolosi.
Siamo così saliti a Montefredane, quasi 400 metri, per fare un update con Antoine e la moglie Diamante, ripercorrere insieme la strada che dal 1997 li porta fino ad oggi, al successo dei Tre Bicchieri per la 2004 e alla 2005 ultima nata (non filtrata e non chiarificata), alla 2006 presto in bottiglia, alla 2007 ancora in fermentazione, ai progetti sul rosso e di ingradimento del vigneto e della cantina.
I numeri sono ancora piccoli e non consentono ad Antoine di lasciare il suo lavoro per dedicarsi interamente alla terra come vorrebbe. E vediamo come nella manifattura artigianale i vini possano avere storie strane e incredibili: tutti ricordano infatti il 1997, quello passato in legno, e poi il 1999. E il ’98? Questa annata ha una storia burocratica, la denuncia solo all’ufficio antisofisticazioni e non anche alla Camera di Commercio per la doc sicchè il purissimo Fiano di Antoine e Diamante è rimasto vino da tavola. All’epoca l’azienda non era conosciuta e così ci sono ancora oltre mille bottiglie stoccate che adesso saranno riproposte dopo la verifica: non ci siamo, dunque, dimenticati di aggiungere la dicitura doc al titolo di questa scheda perchè è questione normativa aperta che sarà risolta a breve.
In ogni caso ha ben poca importanta di fronte a questa meraviglia nel bicchiere, a un acuto del passato da ascoltare con devozione. Come abbiamo già avuto modo di verificare con il vicino Vadiaperti, il Fiano impressiona per la sua capacità di attraversare il tempo in modo integro, il filo di ossidazione sparisce infatti appena il bicchiere si ossigena lasciando aprire il vino in un valzer di sensazioni fruttate, ancora, mentre in bocca la freschezza è principe indiscusso.
Un filo varietale unico capace di legare annate così lontane a quelle più recenti, compresa la 2005. Il 1998 appare ben strutturato, quasi cremoso, lungo e ben in equilibrio fra tutte le sue componenti. Il bicchiere di un grande artigiano del vino che ha in mente di farcene vedere delle belle.
Sede a Montefredane, Via Toppole. Tel. 0825 30777, fax 0825 22920. villadiamante@tiscali.it Enologo: Antoine Gaita. Ettari: 3,5 in agricoltura biologica. Bottiglie prodotte: 12000. Vitigni: fiano, aglianico
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