Forse la viticoltura in Italia è l’unico settore capace di vivere e raccontare qualcosa di simile al sogno ameriano, ossia alla possibilità di rovesciare completamente le proprie condizioni di nascita solo grazie alla capacità di lavoro e alla determinazione nel portare avanti i sogni. Così Salvatore Molettieri, nato a Montemarano, sperduto paesino irpino alle falde del Massiccio del Terminio non lontano da Taurasi, noto sinora agli antropologi per il suo Carnevale, cambia la propria azienda zootecnica e la fa diventare nel giro di un paio di decenni una delle cantine del Sud più conosciute in tutto il mondo.
Il suo è un Taurasi estremo, giocato soprattutto sulla potenza muscolare espressa da questa uva vendemmiata sempre a novembre, nelle annate più fredde anche alla fine del mese, su un territorio alto 600 metri, ventoso, arricchito dal materiale eruttato dal Vesuvio nel corso dei turbolenti millenni geologici della Campania.
E’ un Taurasi di verità contadina pur essendo disegnato dalle concentrazioni e dall’alcol, gli estratti sempre oltre quota 40, affidato il tutto alla inesauribile freschezza dell’Aglianico.
Ci si ritrova con gli amici alla serata organizzata da Arcangelo Gargano alla Locanda di Sant’Angelo dei Lombardi nel clima tipico irpino, freddo pungente che apre lo stomaco, decine e decine di curve che ti allontanano dalla pista autostradale che ha reso transitabile questa provincia, la neve ad alta quota che preme verso il basso e che spegne la luce man mano che si arriva lasciando spazio al buio silenzioso della notte di questi villaggi irpini in cui matura il carattere chiuso della gente.
Poi la porta si apre e la calda atmosfera della osteria di Arcangelo, ormai al decimo anno di attività, subito ti avvolge: il pasdaran irpino Lello Tornatore di ritorno da Benevento si toglie le bombole di ossigeno necessarie per andare fuori la provincia senza danni, ritroviamo Alessandro Barletta di Slow Food Taurasi e Marcella Russo, brava produttrice di Aglianico sulla Carazita. Ci aspetta Giovanni, il figlio enologo di Salvatore, dal tocco sensibile e innato.
Ripercorriamo così la incredibile storia di questo Aglianico eterno, le verticali per questi vini sono ormai come i tagliandi alle macchine capaci di fare un milione di chilometri, non servono o rilevano solo accidentali incidenti secondari di percorso.
Vigna Cinque Querce 2006
‘O creaturo ha ancora un bordo viola nel bicchiere e un naso che spara ciliegia secondo il puro stile montearanese. Grande ingresso al palato, dal basso della lingua dopo la salivazione il vino conquista rapidamente tutto il palato avvolgendolo senza dolcezza, con energia e forza. Poi plana verso l’ugola con grande impatto annunciando una chiusura lunga e infinita. Ha davanti qualche decina d’anni pur essendo in perfetto equilibrio.
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Il mio preferito del decennio. Quello più abbinabile al cibo grazie alla acidità travolgente che non spette mai di spingere, di rinnovare la voglia di bere, nasce alla fine di un vendemmia complessa, terminata con la raccolta il 18 novembre. Il frutto e il legno sono in buon equilibrio ma in secondo piano rispetto alla elasticità che domina il palato. Intrigante, non scontato, dopo un po’ al naso ritornano sentori di cenere e di leggera tostatura.
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Il vino proclamato rosso d’Italia e che ha fatto conoscere Molettieri quando ancora Vini Buoni d’Italia era l’Ipse dixit. Un vino di fronte sicruamente io alzo alle mani ma che continuo a ritenere poco disteso, con la percezione psicologia di una contrazione che ancora deve essere risolta dal tempo. Sicuramente un vino di prospettiva, ricco di frutta, di rimandi speziati e note balsamiche, poi anche di cenere, forte e possente ma veloce.
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Qui entriamo nella quadra dei classici, la 1999 resta ancora l’annata migliore, insuperata da quelle che l’anno seguita, per la generosità climatica che ha regalato piante vigorse e forti, uva sana e perfetta, una manna dal cielo per i viticoltori che ancora la ricordano con rimpianto. Il vino esprime questa perfezione, fresco, aderisce perfettamente a tutto il palato e poi procede spedito lasciando chiaramente intendere la percezione della materia con un finale lungo e infinito. Perfetta espressione di questo stile in cui non ci sono eccessi o squilibri.
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Vigna Cinque Querce 1996
Figlio di un’annata minore, Giovanni confessa che è il suo preferito. Un vino che bisogna attendere, emergono finalmente anche dei sentori terziari, l’ossigenza aiuta i primi passi all’aperto regalando cuoio, cenere, ancora rimandi di frutta sotto spirito. La beva è austera, meno complessa delle promesse del naso, ma perfetta, pulita, fresca con un ottimo allungo del finale.
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Cosa dire? Ci si rivede tra dieci anni, a Dio piacendo. Il vino sicuramente ci sarà!
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