Insalata di mare, spaghetti alle vongole, frittura di gamberi e calamari, pesce al forno, gamberoni arrostiti, insalata di rinforzo (cavolo lesso conciato con sottaceti, olive bianche e acciughe), qualche contorno. Poi gli Struffoli (palline di pasta guarnite di miele, canditi, e confettini), la Pastiera, dolci di Natale (roccocò, mustacciuoli, susamielli e paste di mandorle varie), Panettone o Pandoro (o entrambi) e frutta secca.
Potrete giurarci che, stanotte, è questo che i napoletani mangeranno a casa propria. E anche chi cenerà fuori, per spezzare la ripetizione uguale dei giorni di festa, probabilmente uno di questi piatti, rivisti e interpretati quanto si vuole, pure se lo vedrà servire.
Diciamolo: il Natale a Napoli, insieme al presepe, l’albero di Natale, il rito dell’acquisto dei regali di Natale, significa cibo in quantità. Non importa quanto se ne mangi (tanto) ma ci deve essere. Reminescenza di un passato nel quale ciò che si mostrava era il segno di ciò che si aveva, ed era.
E il capitone? L’ho tenuto da parte a posta perché su di esso si appunta una speciale attenzione in questo giorno. Rappresenta uno dei rari punti di contatto, sulla tavola delle feste, tra Nord e Sud. Baccalà e panettone a parte.
Questa anguilla gigante (esemplare femmina del noto pesce d’acqua dolce), che raggiunge anche il metro e mezzo, è una presenza costante nelle pescherie e sulle tavole dei partenopei a Natale.
La tradizione vuole che la notte del 23, l’antivigilia di Natale, si vada a far provvista del pesce per la cena del 24. Meglio se nei mercati del pesce. Da quando il mercato “sopra le mura”, quello di Porta Nolana (porta ovest di ingresso nella cinta muraria aragonese di accesso al centro antico) è stato falcidiato dalle ordinanze dell’ufficio igiene (poche le pescherie sopravvissute e in attività), c’è un grande vuoto per gli amanti del gastro – folclore notturno. Gli spazi di Pignasecca, Sanità, Antignano e Borgo Sant’Antonio Abate non sono equiparabili. Forse, da qualche anno, può valere la pena arrivare a Pozzuoli per riempirsi davvero gli occhi di distese di gamberoni e pesci guizzanti.
Divisi in due vasche – di qua i più piccoli (16 euro al chilo) e, di là, i più grandi (18 euro al chilo) – nelle quali si riversa di continuo acqua fresca e gelata, i capitoni, scivolando l’uno sull’altro e boccheggiando come in cerca di conforto reciproco, attendono il proprio destino: un coltellaccio o una mannaia.
Le favolette del folclore napoletano recitano che “nei ricordi di Natale di ogni bambino napoletano c’è sempre un capitone che nuota felice e ignaro del suo destino nella vasca da bagno con cui giocare. Prima che arrivi la mamma e porti il capitone in cucina una volta arrivata l’ora fatale”. Io non ricordo nulla del genere. Sebbene mi sarebbe piaciuto, nessun capitone ha mai nuotato nella mia vasca da bagno.
Leggenda?
Certo, invece, è che, anche se per mera devozione, dato che, ormai, tutto ciò che è repellente (e il capitone è la “bestia” più viscida dell’anno) e grasso è caduto in disgrazia, a casa dei napoletani il capitone “s’adda fa!”. Per lo più resta per giorni e viene conservato con aceto e olio. I più giovani lo evitano – fissandolo a tavola con una espressione, una smorfia, che è un misto tra curiosità e repulsione – mentre gli adulti lo assaggiano sempre, mangiandolo, come vuole il bon ton del Natale applicato ai piatti del cuore, con le mani.
La morte del capitone, in pescheria, è un momento spettacolare e cruento. Parlare di un corpo a corpo tra il pescivendolo e l’anguilla gigante non è esagerazione, tanta è la forza e la prontezza di riflessi che il primo deve esercitare per assestare il primo taglio sulla testa del pesce. Gli esemplari più grandi, infatti, avendo vitalità e energia incredibile, oppongono una resistenza incredibile alla presa dell’uomo. Da quel primo colpo in poi, con abbondanti fiotti di sangue, continuerà, l’anguilla, a muoversi. Lo farà perfino in padella, dove troverà al sua morte definitiva. E’ quest’ultimo, uno dei misteri di Natale e anche uno dei suoi momenti più crudeli: osservare i tranci di capitone contorcersi.
La ricetta tradizionale, dicevo, vuole che il capitone sia fritto. Tagliato in tranci di circa dieci centimetri, lo si infarina da entrambi i lati, e si frigge in abbondante olio. Poi si lasciano i pezzi ad asciugare sulla carta assorbente. Si possono insaporire con foglie di alloro e, tassativamente, si servono caldissimi per apprezzare tutta la succulenza della carne che è ricca di grasso e che ha una consistenza indefinibile: spumosa, tenace, scioglievole ed elastica.
Io che, e solo durante le feste, mi crogiolo nella mia napoletanità, seguirò anche in questo 2010 esattamente tutta la trafila che vi ho descritto: nottata al mercato con assassinio del capitone; frittura e sbalordimento (finto) e pena per la fine dell’anguilla; degustazione. Bagnerò il mio capitone con lo spumante, di Greco metodo charmant, della Fattoria la Rivolta 2009: profumato di agrumi e note minerali, avvolgente e pieno in bocca, con piacevolissimi ritorni di cedro e mandorla amara. Lunghissimo e di grande struttura come esige un piatto di grande saporosità come il Capitone fritto. Le bollicine, fini e fitte come quelle di questa etichetta della azienda di Paolo Cotroneo, penseranno a spazzare via la grassosità residua. Auguri.
Immagini (Monica Piscitelli): Pescheria Azzurra di Luigi Gagliotta e figli alla Pignasecca, dal 1947.
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