di Pasquale Carlo
Impossibile raccontare in maniera esaustiva – in poco spazio – l’articolata e intrigante storia del vino Asprinio e dell’alberata aversana. Il vitigno asprinio bianco bianco è iscritto fin dal 25 maggio 1970 al Registro nazionale delle varietà di viti da vino. Vanta diversi sinonimi: Olivese, Ragusano, Ragusano bianco, nei comuni di Ginosa, Mottola, Montemesola, Pulsano, San Giorgio, Martina, Francavillafontana, Carovigno, Molfetta; Asprino, Asprinio, uva Asprina nelle zone di Aversa, Maddaloni e Caserta. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, parliamo di un vitigno la cui coltivazione è considerata idonea non solo nell’intero territorio campano, ma anche in tutta la regione Basilicata, oltre che nella provincia di Taranto (Salento – Arco Jonico – Salentino), in quella di Brindisi (Salento – Arco Jonico – Salentino) e in quella di Lecce (Salento – Arco Jonico – Salentino). Questa varietà è ammessa oltre che nella Doc Aversa anche nelle Igt: Basilicata*, Benevento, Campania, Colli di Salerno, Dugenta, Epomeo, Paestum, Pompeiano, Puglia*, Roccamonfina,
Salento, Tarantino*, Terre del Volturno*, Valle d’Itria (l’asterisco segna le indicazioni in cui il vitigno può essere specificato in etichetta).
Uno studio condotto nel 2009-2011 sul vitigno e sul vino, realizzato grazie alla collaborazione dell’azienda ‘Tenuta Adolfo Spada’, la Facoltà di Agraria di Portici (Napoli), l’Istituto sperimentale per la Patologia vegetale (Roma), la Fondazione E.Mach di S. Michele all’Adige (Trento) e l’Istituto per la virologia vegetale del CNR di Grugliasco (Torino), confermò l’ipotesi, più volte avanzata ma sempre respinta, di una identità genetica tra le varietà asprinio e greco. Infatti, con Decreto del 30 maggio 2018 è stata riconosciuta la sinonimia tra asprinio bianco b. (codice 016) e il greco b. (codice 097).
Un racconto suggestivo – quello che è stato proposto nel quinto incontro dedicato ai piccoli-grandi vini campani, ospitati a ‘Taverna 87’ (Castelvenere) – prende spunto da tre testimonianze di grande interesse.
La prima testimonianza è quella di Plinio il Vecchio, che nella ‘Naturalis Historia‘ (Libro XIV) racconta che «nel paese campano [le viti] si congiungono agli oppi, et quegli abbracciando per tutti i rami loro si distendono insino che arrivano alla cima, et vanno tanto alte che il vendemiatore pare che abbia a ricevere di queste la fiamma et la sepoltura». Oltre a descrivere l’eroicità dei viticoltori dell’alberata, la testimonianza di Plinio corre in aiuto anche per risalire all’origine della coltivazione delle uve asprinio in uno dei più fertili scenari della ‘Campania Felix’. Per alcuni studiosi il vitigno sarebbe originario della Francia, precisamente della regione delle Champagne. Un’ipotesi vuole che a portarlo nel Sud Italia sarebbe stato re Luigi XII, sceso in Italia all’alba del XVI secolo per contendersi i territori meridionali con la corona spagnola. Il re, credendo di dover restare lontano dalla Francia per lungo tempo, fece impiantare un vigneto con questa varietà nelle campagne di Aversa. Un’altra tesi racconta che a portarlo dalla regione dello Champagne fosse stato, invece, Gioacchino Murat. La presenza dell’asprinio nelle campagne aversane ha quasi sicuramente delle origini più antiche, molto più antiche. Come suggerisce anche il professore Attilio Scienza, il vitigno asprinio deriverebbe (come i labruschi, l’oseleta, il pinot e il mantuo) dalla domesticazione delle viti selvatiche, in questo caso dalla Vitis vinifica sylvestris coltivata dagli Etruschi. Questo accostamento con i lambruschi che oggi dominano l’enologia romagnola lo suggerisce anche il nome stesso del vitigno, che ha un valore semantico, analogo a quello di cruet o crovet (crudetto, asprigno), attribuito nei dialetti alle lambrusche piemontesi. Del resto, ancora oggi buona parte dell’asprinio viene prodotto sulle monumentali alberate, un tipo di coltivazione direttamente mutuato dagli Etruschi. Se non bastasse, si può aggiungere che anche il toponimo Aversa potrebbe derivare dall’etrusco vers/fuoco e strettamente correlato alla non localizzata cittadina etrusca di Velsu. Per quanto concerne la coltivazione, per la potatura e la vendemmia è necessario arrampicarsi su lunghissime scale strette (scalilli), costruite su misura. Particolare ancora più curioso e suggestivo è il fatto che per la vendemmia vengono utilizzati strumenti specifici, tra cui le fescine, cesti dalla forma particolare che aiutano i vendemmiatori a limitare gli spostamenti sugli scalilli. Le fescine presentano una base appuntita, grazie alla quale vanno a conficcarsi (quando sono piene) nel terreno. Queste ceste sono del tutto simili ad altre che vengono utilizzate ancora oggi in Georgia, vale a dire dove ha avuto origine la viticoltura.
La seconda testimonianza giunge da Sante Lancerio, il bottigliere di Papa Paolo III. Sante Lancerio annotò tutti i vini bevuti nei viaggi con il Papa (1534 – 1559) in una lettera indirizzata a Guido Ascanio Sforza, poi pubblicata per la prima volta nel 1876 con il titolo ‘I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio‘. E racconta anche del vino Asprinio che «vien da un luogo vicino a Napoli. Li migliori sono quelli di Aversa, città unica et buona. Ce ne sono delli bianchi et delli rossi, ma questi sono meglio. Tali vini sono molto crudi, sono vini da podagrosi. L’estate è sana bevanda. Di questa sorta S. S. usava bere alcuna volta per cacciare la sete avanti che andasse a dormire, et diceva farlo per rosicare la flemma. A volere conoscere la sua perfetta bontà vuole essere odorifero, di colore dorato, et non del tutto crudo. Volendolo per la state, bisogna metterlo, la primavera, nella cantina, et sia sì crudo che il caldo lo maturi, et prima faccisi la prova del colore. Tali vini sono stimati assai dagli osti, che li Cortigiani et Cortigiane corrono volentieri alla foglietta. Anco questo vino è lodato dai Medici, sicché è buono». Questa descrizione evidenzia quelle che erano le caratteristiche del vino, alcune delle quali sono ancora riconoscibili nei vini Asprinio di oggi, nonostante il contributo dell’enologia moderna registrata a far data dalla metà dell’Ottocento. Questo processo fece dell’Asprinio «un vino bianco speciale, prodotto con uve di viti inalberate nel circondario di Caserta, ad Aversa e nei comuni limitrofi. Ha colore paglierino, tendente al verdognolo, ricco di acidi liberi e di anidride carbonica e povero di alcool, giacché ne contiene da 5 a 6 per cento. Siffatto vino comune, diuretico e piacevole, che si usa bere nell’estate, quando ha una temperatura molto bassa, dipendente dalle cantine fredde in cui si conserva, non è adatto per l’esportazione, e perciò viene consumato sul posto, dove peraltro è stimato e ricercato». Ancora più consenso l’Asprinio acquisterà sul finire dell’Ottocento, soprattutto nei mercati del Nord Europa (Svizzera, Austria-Ungheria), grazie anche al taglio con altri vini. Il responsabile enologico per il governo italiano del cantone di Zurigo scriveva: «Il vino bianco di San Severo è un vino neutro, che incontra abbastanza sul mercato svizzero, ma per il suo troppo corpo e la limitata acidità non si assimila ai prodotti locali e rivela sempre il luogo di origine. Se esso si taglia opportunamente con l’asprinio, leggiero in alcool, verdognolo e ricco in acidi, della Terra di Lavoro, fornisce un tipo di vino di corpo e gusto pressoché identico a quello dei vini vodesi». Ed è in questo periodo che l’Asprinio si guadagna anche l’appellativo di champagne napoletano, incrementando la sua fortuna Oltralpe anche per i danni che in Francia causò la fillossera. «Nella Campania delle viti serpeggianti – scriveva Pietro Grisetti nel 1823 – sopra altissimi olmi si raccolgono uve bianche che danno un vino zampillante ed aspre, che chiamasi perciò nel paese asprinio; posto in bottiglie viene creduto vino spumante di Sciampagna». Molto interessante, a tal proposito, è il dialogo tra un marchese ed un oste così come lo racconta Guglielmo Folliero de Luna nell’opera ‘Il sequestro ossia Superbia ed Astuzia’ (1850). Al marchese che gli chiedeva Champagne, l’oste rispondeva: «Questo è Asprinio… Pur troppo marchese; ecco la fatalità dei paesi più piccoli… e noi napolitani dobbiamo recarci a Parigi per bere il nostro medesimo Asprinio conciato a schiampagna!».
La terza testimonianza, forse quella più interessante, giunge dalla penna di Alexandre Dumas padre. L’autore di tanti celebri romanzi, nel suo periodo vissuto a Napoli diventerà un grande estimatore del vino Asprinio, scrivendo in diverse occasioni: «L’asprinio corrisponde a Napoli, al vino di Suresnes a Parigi»; «L’asprinio è un vino piccolo e grazioso, che sta a metà tra la tisana di Champagne e il sidro di Normandia».
Per comprendere il collegamento tra l’Asprinio e il vino di Suresnes – comune di circa 50.000 abitanti dell’Île de France, nel dipartimento dell’Hauts de Seine – bisogna partire dal piccolo vigneto (1 solo ettaro) che oggi si coltiva su questa altura da cui si domina la Torre Eiffel. Questo vigneto du 4.800 piante, da cui si producono dalle 4.500/5.000 bottiglie (85% chardonnay – 15% sauvignon) è l’ultimo testimone di una produzione di vino a Suresnes, famosissima già nel Medioevo per il vino servito anche sulla tavola dei re. Tutto questo fino al 1709, quando un inverno molto rigido (si raggiunsero i – 30° C), distrusse le vigne. Queste furono reimpiantate immediatamente, tanto che nell’Ottocento il vino di Suresnes era quello più consumato nelle guinguettes, le tipiche e popolari botteghe parigine che fungevano anche da ristorante. Preferito anche ai vini di Borgogna e di Bordeaux.
Proprio come i napoletani preferivano l’Asprinio. Ne abbiamo conferma in molte colorite pagine della bella epoque partenopea. «A Santa Lucia come a Posillipo, non si va per gustare i manicaretti e i pasticci della cucina francese. Ma una sempre ed inalterabile è una minuta al pranzo, che umilmente si addimanda cena. I rituali vermicelli al pomodoro – la rituale frittura di pesce, allora allora sotratto alle onde e che guizzi ancora nella padella – lo spezzato di polli nel suo di pomidoro – l’insalata – l’arrosto – i frutti di mare – e un buon bicchiere di asprinio con la neve. E dopo aver tolto una buona satolla di maccheroni ed averli innaffiati con un buon bicchier di asprinio di Aversa (bevanda di rito) – la voce del barcaiuolo vi invita ad una passeggiata sul mare, in cui placidamente si specchia l’astro d’argento, e vuoi o non vuoi bisogna passare la sera cullati dall’onda, spesso al suono di una chitarra strimpellata e di qualche voce sconosciuta nella scala musicale» (Luigi Coppola – ‘Santa Lucia’ in ‘Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti’ – Vol. 2 – 1858). Ma il vero trionfo dell’Asprinio si consumava alla Festa di Piedigrotta: «Piedigrotta è un’immensa tarantella, l’orgia de l’orgia, il canto fescennino, l’inno assordante de la raganella, il trionfo dei fichi e de l’asprino. Più che una festa una confusione, un barbaglio, una fantasia di ricami di luce, e fra tutte queste stelleità […] una fiera gastronomica per il pranzo pantagruelico di una generazione intera, mostra le sue dovizie e trionfano i fichi, i maccheroni fumanti e rossi, l’asprino dorato, i pomodori, le melangiane, i frutti di mare» (Luigi Conforti – Esperia – 1889).
Questo viaggio nella storia dell’Asprinio si può concludere con la bella pagina scritta da Mario Soldati nell’opera ‘Vino al Vino‘, quando racconta il suo primo incontro con questo vino avvenuto alla Cantina di Triunfo: «Improvvisamente mi accorgo del cartello che è appeso alla colonnina del rubinetto. Dice: Asprinio gelato. La mia meraviglia è somma […] Don Vincenzo va di tanto in tanto, a farne rifornimento a Lusciano, alle porte di Aversa […] In ogni modo sono felice di scoprire che c’è ancora chi pigia l’Asprinio […] Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno. Perché i più celebri bianchi secchi, i vini del Reno e d’Alsazia, i Fendant del Vallese, i Tokaj ungheresi, i Sylvaner di Jugoslavia, i Zanandalki di Georgia, e perfino i Poully Fuissé, perfino i Blanc de Blanc includono, sempre, nel loro profumo più o meno intenso o più o meno persistente, una qualche sia pur vaghissima vena di dolcezza. L’Asprinio no. L’Asprinio profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non si può immaginare se non lo si gusta. Pensate a un “martini” (cioè martini secco, gin e limone) smorzato, con un prodigio, in vino, o a un succo di limone ravvivato in vino con un prodigio eguale o contrario […] Difficile da trovargli fratelli, cugini, parenti anche lontani. Dai e dai, mi ostinavo. Assaggiavo, a occhi chiusi, un bicchierotto sull’altro, di quelli bassi e scanalati, che chiamano “parigini”. Mi concentravo. Mi sforzavo di ricatturare, una dopo l’altra, e separatamente una dall’altra, sensazioni così labili, così evanescenti come possono essere quelle di un bianco secco bevuto in passato chissà dove, e di paragonarle, una per una, alle sensazioni che provavo in quel momento con l’Asprinio».
Questo racconto rappresenta una sintesi della ricerca compiuta nell’ambito del progetto ‘Aversa Wine – Conservazione e valorizzazione delle Alberate aversane e delle viti maritate a pioppo. Istituzione vincolo ambientale’, voluto dal Consorzio di Tutela Vini Caserta (Vitica), con l’obiettivo di rafforzare l’identità territoriale del vino Asprinio (da alberata) e la percezione della sua qualità totale. Tra i tanti lavori condotti nell’ambito del progetto anche un Censimento delle alberate esistenti. Per questo sono state indicate – sulla base degli studi e dei sopralluoghi effettuati nei campi – quelle che sono le caratteristiche fondamentali che deve rispettare l’alberata:
- Età delle piante: lungo ogni filare almeno il 50% delle piante deve avere un’età superiore ai 10 anni;
- Tutore: la tradizione vuole che la vite dell’alberata fosse “maritata” al pioppo o, più raramente, all’olmo. In un’ottica di tutela delle tecniche tradizionali pertanto il sostegno di base dell’alberata deve essere considerato il pioppo e in alternativa l’olmo. Tuttavia si prevede la possibilità di deroghe all’utilizzo del pioppo, concesse su specifiche richieste dei viticoltori, per motivi volti a garantire una maggiore sicurezza sul lavoro e stabilità strutturale della parete in particolari condizioni di avversità (pali in cemento – legno trattato) oppure per assecondare esigenze agronomiche che mirano a rendere maggiormente sostenibile dal punto di vista ambientale la coltivazione;
- Altezza minima: per le alberate giovani viene ammessa un’altezza minima di 6 metri. Tali alberate dovranno essere alzate nell’arco temporale di 3 anni all’altezza minima di 7 metri dal ter Sono ammesse deroghe rispetto all’altezza minima (6 metri invece di 7) per motivi legati alla stabilità strutturale.
I VINI IN DEGUSTAZIONE
Vino spumante di qualità Asprinio Brut – I Borboni
Tutto quello che si chiede ad uno spumante lo troviamo in questo calice. Metodo Charmat da sole uve asprinio, coltivate sia ad alberata (220 chilogrammi per ceppo) che a sylvoz (45 quintali per ettaro). Le vigne che vanno dai 50 ai 350 anni di età, affondano in terreni sciolti, di origine vulcanica. Tutto questo conferisce ulteriore freschezza a un vitigno che fa della freschezza il suo punto di forza. Il giallo paglierino carico nel calice offre bollicine ben marcate e persistenti. Il naso, seguendo il solco del vitigno, a primo impatto è leggermente timido, molto concentrato sulle sensazioni agrumate, lasciando avvertire poi anche la mela. Straordinario in bocca, fin dall’ingresso. Molto sapido, con una nota acida che conquista la bocca in modo ampio, orizzontale. Ed ecco ancora l’agrume, soprattutto limone, che avvertiamo in modo persistente e lungamente. Sono sedicimila le bottiglie di un vino che non si stanca mai di bere.
Aversa Doc Asprinio ‘Hera Nova’ 2021 – Cavasete
Nel giorno della degustazione l’anima di Cavasete, Giuseppe Luogo, ha superato l’esame di Stato di dottore agronomo. Lo ricordiamo non solo per rinnovargli gli auguri ma soprattutto per far comprendere la sua filosofia produttiva. Giuseppe ha voluto fortemente riprendere la tradizione di famiglia, iniziando pochi anni fa a curare in modo quasi maniacale l’alberata avuta in eredità dal nonno, affiancata da un vigneto a cordone speronato le cui viti camminano verso i trent’anni. In tutto circa 1,5 ettari di vigne. Questo Asprinio (tutto da alberata) coniuga tradizione e conoscenza: mette in risalto tutto il fascino delle grotte da cui nasce, ma è capace di guardare avanti, soprattutto in termini di conoscenza del suolo. Terra vulcanica, ma con varie stratificazioni, per un vino che secondo il produttore può andare oltre alle note agrumate. Ed è così, regalando oltre a tanto limone e l’immancabile mela anche sentori di frutta gialla. Sempre con smalto, considerato che la vena acida ad un bel punto si prende completamente la scena. A lungo.
Aversa Doc Asprinio ‘Alberata’ 2018 – Tenuta Fontana
Il progetto avviato nel 2009 da Raffaele Fontana e che oggi vede in campo i figli Mariapina e Antonio, oltre a valorizzare l’alberata cerca di trovare nuovi percorsi enologici per questo vitigno affascinante. Le uve provengono tutte da alberata (regime di coltivazione biologico) e vengono raccolte generalmente negli ultimi giorni di settembre. In cantina la novità: fermentazione in anfore di terracotta a temperatura controllata. E l’anfora continua ad essere la culla del vino per un periodo di circa sette mesi, facendolo riposare sulle fecce fini. Segue ancora un altro mezzo anno sulle fecce fini, questa volta in acciaio. Dopo due mesi di bottiglia il vino comincia il suo viaggio. Alla vista domina un bel giallo carico, quasi dorato. Il naso mette in mostra tutto il lavoro fatto: le note agrumate vanno in sottofondo per far emergere la frutta gialla matura, le erbe di campo (soprattutto camomilla). In bocca il nettare di Asprinio acquista struttura, una bella morbidezza, grassezza. Nonostante tutto l’acidità è sempre lì, baldanzosa, a dare continuamente piacevolezza al sorso.
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