Una verticale che riflette il percorso di un vitigno, di un territorio, di una regione. Un vino protagonista di una rivoluzione, quella post scandalo del metanolo, che ha spinto la Campania stessa verso una ricerca identitaria oltre che qualitativa.
È questo il senso ultimo della degustazione dal titolo “Dal Blu al Bue Apis – La storia dell’Aglianico del Taburno in sei annate” tenutasi il 13 giugno presso la Cantina del Taburnoe guidata da Luciano Pignataro, Tommaso Luongo e Pasquale Carlo.
La Cantina del Taburno Aglianico del Taburno Falanghina del Taburno | Cantina del Taburno, realizzata nel 1972, si rende interprete – con altre cantine sociali – delle esigenze di quegli anni andando a salvaguardare il reddito agricolo come poche altre zone della regione,distinguendo il Sannio come territorio illuminato ancora oggi. Inoltre, Luciano Pignataro sottolinea l’intuizione commerciale degli anni ’90 quando questa cantina incide sul cambiamento delle abitudini di consumo di Napoli quando imperavano i bianchi veneti e i vini campani non erano annoverati tra le bottiglie di qualità; non solo, si punta agli autoctoni quando era tutt’altro che scontato. Tra questi, spunta anche l’Aglianico ma solo a seguito di un importante lavoro di ricerca e selezione delle varietà coltivate – vista la dilagante promiscuità – di cui testimonia l’enologo storico, per 18 anni, Pizzi a cui va il merito di aver supportato e guidato i contadini per la gestione delle uve. Un successo frutto anche dall’esperienza internazionale che sin dagli esordi lo porta a lavorare con i professori delle Università di riferimento, prima in Inghilterra poi in Italia fino ad arrivare alla collaborazione con il prof. Moio perché – dice Pizzi – “senza sperimentazione non c’è sviluppo, l’enologo deve essere un curioso”. Non solo, è lui che
porta la bottiglia – com’era abituato a lavorare anche all’estero – quando si tendeva, invece, a vendere lo sfuso sulla piazza napoletana.
Oggi la Cantina del Taburno lavora su 8 vitigni e 13 comuni per un totale di 600Ha e uve di circa 300 viticoltori. Il Bue Apis è il vino simbolo di una storia di successo che ha rischiato di passare in mani esterne ma che grazie all’impegno dell’imprenditore locale Enzo Rillo oggi resta essa stessa “autoctona”. L’obiettivo di Rillo è saldarsi con la tradizione e l’enogastronomia territoriali così come al mare e quindi a Napoli sempre con sguardo puntato in avanti assicurato dal coinvolgimento della nuova generazione: la figlia Michela la quale, in poche battute, riesce a trasmettere non solo il legame naturale della sua famiglia con le sorti di questa realtà ma anche il rigore e la dedizione necessari.
Pasquale Carlo, giornalista e noto esperto del territorio sannita, ricorda che i padri della critica enologica, Veronelli e Soldati, si riferivano al vino della zona come “vino di Vitulano”ancor prima che di “Aglianico”. E questa bottiglia riesce ad unire 2 paesi limitrofi spesso in “derby” che si ritrovano coinvolti in questa deliziosa alchimia perché il Bue Apis nasce da uve coltivate a Vitulano trasformate a Foglianise.
Le uve Aglianico provengono esclusivamente da una vigna centenaria, con piante che arrivano fino a 250 anni di età, ubicata in contrada “Pantanella” a circa 1000 metri dalla cantina del Taburno, una presenza quindi radicata in zona. Vigne a piede franco quindi, grazie alla composizione sabbiosa del terreno caratterizzato da marne argillose calcaree.
Le uve sono raccolte a novembre a piena maturazione prima di una macerazione di circa 40 giorni e una maturazione di circa 18 mesi in barrique nuove di rovere francese e di castagno. Ed è proprio il castagno il prossimo obiettivo in fase di lavorazione a rimarcare, ancora di più, il legame con il territorio e la tradizione di vinificazione della zona come ci racconta e promette il responsabile tecnico della produzione Filippo Colandrea.
La verticale è stata quindi occasione per muoversi attraverso le tappe più importanti di un percorso dalla portata quanto mai simbolica.
Le annate più recenti come la 2017 e la 2015 hanno lasciato spazio alle più datate: 2008, 2004e una splendida 1999 fino alla 1987, prima etichetta con l’indicazione “DOC” dopo l’approvazione del 1986 (oggi DOCG). Ecco alcune impressioni di un vino oggi riconoscibile sullo scaffale dall’etichetta scura con il bue in vista e che, come ricorda Tommaso Luongo, Presidente AIS Campania, è il primo vino sannita ad aggiudicarsi i ‘3 bicchieri’ del Gambero Rosso (nel 1999) in tempi in cui – senza social e internet – questo tipo di riconoscimenti si rendeva indispensabile per comunicazione e diffusione.
2017
Il frutto viola, come il mirtillo, è centrale per un sorso che sembra riproporre una bevuta più scorrevole nonostante la naturale struttura tannica. Integrato e goloso, ha ancora un radioso futuro avanti a sé
2015
È solo con la 2015 che l’evoluzione inizia a farsi strada con note casearie e di torrefazione a prevalere sul frutto sotto spirito poi catrame e speziatura rinfrescante che richiama il cardamomo per un sorso voluminoso e asciutto
2008
Profilo degustativo evoluto con biscotto all’avena, liquirizia, fave di cacao e barbecue. Il bouquet è più arioso del precedente ma il sorso più austero, denso e marcante.
2004
Il caffè marca le note odorose insieme alla confettura di frutto di bosco caramellata che insieme al fumo rendono il naso più cupo ma con un’evoluzione del frutto più precisa. Al sorso è maggiormente sgranato.
1999
Elegante e scorrevole, sembra non saper invecchiare. Il naso invitante di mon-cheri si sviluppa ulteriormente su note di tartufo, pepe nero bruciato e una netta amarena prima di un soffio balsamico. Al palato è avvolgente e deciso ma di grande modernità.
1987
Un esperimento da riproporre alla cieca. Il carattere “marsalato” è definito e coerente. Le note eteree non sono scomposte: metallo, polpa di mela fermentata, nocino e smalto definiscono il tipico stile ossidativo che il colore annunciava. Il finale lungo e amaricante si distende sulla frutta secca tostata.
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