Verticale Rotondo Paternoster 2000-1998 e 1997

Pubblicato in: Verticali e orizzontali

Potenza è una città che non mi fa mai sconti: quando a gennaio Vito mi telefonò per invitarmi alla verticale di Rotondo, l’Aglianico del Vulture di nuova concezione a cui sono stati assegnati in assoluto i primi Tre bicchieri in Basilicata, pensai subito alla neve. E così è stato due mesi dopo: bretella di collegamento chiusa tra Sicignano e il capoluogo lucano, giro per Polla e poi Brienza e Tito in un paesaggio lunare sotto lo zero. Mi azzardo anche senza catene (mai avute perché sulla Costa mai nevica) perché so che ne vale la pena: l’appuntamento è all’Antica Osteria Marconi dove il tandem Peppe Misuriello e Franco Rizzuti ha trovato il giusto equilibrio tra proposta e ospitalità. Quello di Vito è il terzo di quattro appuntamenti di una rassegna dedicata all’Aglianico, a cui hanno preso parte Bisceglia, Cantine del Notaio e Titolo di cui trovate i resoconti di Iranna De Meo.
Leggi Paternoster e pronunci Don Anselmo, per questo motivo stavolta sul podio c’è il Rotondo che ha segnato una cesura con il passato finendo però per esserne riassorbito: nasce infatti nella proprietà acquistata dalla storica azienda di Barile proprio all’uscita della superstrada Melfi-Potenza, confinante con Titolo di cui originariamente era corpo unico. Un investimento che segna il passaggio di Paternoster dalla pura vinificazione delle uve acquistate alla produzione di proprie, il salto necessario a cui molti vinificatori, anche in Campania, sono stati costretti all’inizio degli anni ’90 per essere adeguati alla imponente svolta assunta dalla filiera vitivinicola italiana. Il Don Anselmo era, ed è, una selezione di uve, lavorato in legno grande, Rotondo invece è il primo vino passato in barrique. A dimostrazione di quanto sia cambiato il clima dopo il 2001, dobbiamo dire che effettivamente all’inizio il Rotondo è sembrato assumere quel ruolo di leadership territoriale e soprattutto aziendale grazie al riconoscimento della Guida Slow Food e Gambero Rosso, poi le cose sono cambiate e l’attenzione degli appassionati si è spostata nuovamente sul Don Anselmo ritornato ad essere life style grazie soprattutto alla sua lunga storia su cui abbiamo scritto e riscritto e al libro di Andrea Scanzi in cui è preso come esempio sommo di Aglianico. La campagna è così, si prende rivincite inaspettate sui luoghi comuni di città.
Ero dunque curioso di centrare l’attenzione su questo enfant prodige rimasto tale per rivivere l’atmosfera di quegli anni e capire come era stata vissuta in Basilicata. Devo dire subito che tutte e tre le annate non hanno quegli eccessi di legno, di colore e di alcol, che hanno invece caratterizzato il Vulture a partire dal 2001 con punte esasperate nel 2003. Lo stesso uso della barrique appare misurato e parco, niente vaniglia per capirci, ma soprattutto niente tagli invasivi con altre uve sicché alla fine, come spesso accade quando si lavora seriamente, i due stili apparentemente opposti, cioé legno grande e piccolo, si ricompongono con il passare degli anni. In sostanza, mi sono trovato di fronte ad un Aglianico elegante, complesso, molto pulito. Un tono conservato anche in seguito come abbiamo potuto verificare con la 2005 servita durante la cena di cui ho scritto sul Mattino.

1997. Come sempre succede quando si va in verticale, l’annata più antica è quella che riscuote più successo. Ciò dipende certo dal fascino esercitato dagli anni, ma anche dalle caratteristiche dei vini da invecchiamento che si esprimono sempre meglio quando sono aiutati dal tempo. La 1997, come è noto, è stata tra l’altro una grandissima annata, certamente superiore alla 1998 e alla 2000 in questione. Il colore è ancora rubino con riflessi granato, al naso ci sono nuances di conserva di amarena, note balsamiche, caffé appena tostato, un tono fumé mentre in bocca l’attacco è piacevole, abbastanza morbido, conferma eleganza e finezza con grande freschezza capace di dirigere la beva e portarla avanti sino in fondo. Un vino di corpo, bevibile, lontano mille miglia dalla concentrazioni esplose a cavallo tra gli anni ’90 e il decennio successivo. Insomma, un vino dal sapore antico. Quando uscì, dice Vito, nessuno se ne accorse.

1998. Ecco il primo Tre Bicchieri della Basilicata. Oggi questa nota può lasciare indifferenti, soprattutto gli addetti ai lavori, ma quando furono assegnati la cosa fece davvero rumore perché era incredibile che una regione di così grande tradizione potesse essere in qualche modo esclusa dal movimento di ripresa che aveva caratterizzato tutta l’Italia. Qui il colore rubino non ha unghia, al naso prevale molto netta l’amarena, ancora balsamico, l’attacco è più dolce con l’acidità che, pur ben presente, appare un passo indietro rispetto alla 1997. Complessivamente un vino più equilibrato, elegante e fine, ma anche un po’ meno complesso del 1997.

2000. Come ben sanno gli appassionati, annata calda anche in Irpinia e Vulture, sebbene senza i picchi esagerati del 2003 e dell’agosto 2007. Questo andamento climatico non giova alla distensione dei vini che si presentano sempre in modo compatto e impettito. In questo caso la frutta fresca rossa domina sovrana il naso e lo abitua ad un rapporto quasi monocorde. Un vino pieno di materia, ma, attenzione, sempre non concentrato, dove tutto è risolto dalla acidità del vitigno che in bocca riesce ad esprimere salvifici toni minerali.
Saltata la 1999 non prodotta, a nostro avviso la 2005 si ricollega più alla 1997 che alle altre due annate. Lo stile Paternoster, proprio come Mastroberardino, resta comunque sobrio, caratterizzato ma non imposto, il vino aspetta sempre di essere scoperto invece di scoprirsi. Anche quando, come in questo caso, è in legno piccolo.

Sono le due: esco e trovo l’auto seppellita dall’abbondante nevicata. Con un po’ di fortuna, il piano dell’Anas ha funzionato, navigo notturno nel bianco sino alla pioggia in compagnia dei Pink, nella testa i vini e il ricordo della serata passata con gli amici di sempre. Quale migliore cornice per il nostro amico Aglianico?


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