di Gianmarco Nulli Gennari
Il Rinascimento del vino italiano ha compiuto ormai trent’anni, e uno dei fenomeni più intriganti (ma anche deprimenti per ciò che rivela in termini di memoria storica del Paese) riguarda la riscoperta di terroirs che vantano una storia plurisecolare, ma che in molti, esclusi gli addetti ai lavori, continuano ad ignorare. Con l’abbandono delle campagne avvenuto negli anni Sessanta del Novecento si è verificato quello che, con un’iperbole pasoliniana, potremmo definire un genocidio culturale.
È la storia di tanti territori italiani di grande tradizione vinicola, serbatoi del consumo interno e di un redditizio traffico con il nord del Paese e con l’estero, visto che prima dei cambiamenti climatici le uve che raggiungevano una gradazione accettabile, sopra i dodici gradi, erano una manna per i produttori toscani, piemontesi, francesi, ecc. Era questo il destino dei vini siciliani, in particolare di quelli dell’Etna, noti come “il vino di Riposto”, dal nome della località sul mare che fece fortuna tra Settecento e Ottocento grazie al suo porto e al vino, esportato in ogni angolo d’Europa. Il nome Riposto non a caso deriva dal siciliano
u ripostu, ovvero il ripostiglio o la
cantina.
Insomma, parliamo di un fenomeno di natura economica e sociale che ormai pochi italiani conoscono. Nei primi anni Duemila, grazie al decisivo apporto di alcuni lungimiranti imprenditori “alloctoni” e alla meritoria attività di qualche genius loci, tra i quali ci permettiamo di ricordare Giuseppe Benanti e l’enologo Salvo Foti, scoccò il momento della rinascita del vino etneo, assurto in pochi anni al passaparola tra gli appassionati e soprattutto tra gli investitori, che arrivarono in massa e con danaro fresco dalla Toscana, dai paesi anglosassoni e infine anche dalla Sicilia occidentale (tanto che ormai quasi tutte le griffe storiche del vino isolano presentano nella loro gamma anche etichette etnee).
Uno dei primi, lungimiranti produttori di vino a “sbarcare” sull’Etna fu Andrea Franchetti, titolare della Tenuta di Trinoro a Sarteano (SI). Imprenditore dinamico, amante dei vitigni francesi ma anche sperimentatore senza pregiudizi, acquista nel 2000 una tenuta di circa 40 ettari a Passopisciaro, nel comune di Castiglione (CT), e li reimpianta prevalentemente con chardonnay, cabernet, merlot, cesanese e petit verdot , vitigni con cui era abituato al lavorare nella Toscana meridionale, con una densità di impianto di 12.000 piante per ettaro. Il resto è bosco e “sciara”, una distesa di rocce laviche d’eruzioni recenti, ancora non fertili. E si dedica al restauro di una villa-palmento. Siamo a circa mille metri sul livello del mare.
Per prendere la mano, acquista e vinifica vecchissime parcelle di alberelli, in prevalenza di nerello mascalese, il vitigno d’elezione della zona. E scopre un mondo davvero “nuovo”, tanto che il nerello mascalese diventerà il core business dell’azienda Passopisciaro. Fino al 2008 è un’unica etichetta, ma negli anni Franchetti impara a conoscere e apprezzare le diversità dei singoli territori, e così nascono nuovi vini che prendono il nome di Contrade: un concetto che rimanda direttamente al “cru” francese. Franchetti ne esalta le specificità producendo cinque selezioni: Chiappemacine, Porcaria, Guardiola, Sciaranuova e Rampante, ognuno proveniente da un vigneto posto nell’omonima contrada, su colate laviche differenti, con diversa composizione minerale e ad altezze diverse.
Rimane il vino da cui tutto era cominciato, fino a nove anni fa frutto di tutte le vigne: il Passopisciaro rosso (che negli ultimi anni ha cambiato nome, ora si chiama Passorosso). È stata quindi un’occasione imperdibile poter testare, durante l’ultima edizione del Merano Wine Festival, una verticale quasi completa (2004-2013) di questa etichetta, testimone storico della Reinassance dell’Etna. La fermentazione è in acciaio, l’affinamento in botti grandi da trenta ettolitri. Ecco le nostre impressioni sui vini assaggiati.
- 2004 Annata classica, meteo perfetto. Marcato ancora dal legno, nota balsamica che sembra una caratteristica tipica dell’etichetta, macchia mediterranea. Baroleggiante, potente, fruttato, il vino più di “ciccia” di tutta la verticale, di grande struttura ed estrazione. 89
- 2005 Annata fredda. Visciola, balsamico, terroso, un tocco di anguria. Bocca molto fruttata, più da nero d’avola che da nerello, chiusura elegante e minerale. 87
- 2007 Annata calda. Tostato, caffè, mirtillo, stecco di liquirizia, lieve speziatura, anche floreale (rosa). Tannino di buona struttura, ben integrato, buon contrasto salino, manca un filo di acidità, più largo che verticale. 86
- 2009 Annata fredda. Naso esilissimo, quasi da bianco non aromatico. Anche in bocca la struttura non è enorme, anzi sembra quasi scarnificato. Tannino un po’ rugoso, buona PAI ma è un bicchiere cui manca l’equilibrio. 83
- 2010 Annata fresca. Mazzetto aromatico (origano), floreale, macchia mediterranea, bagnasciuga. Tannino perfetto, dolce e setoso, saporito, chiusura lunga, fresca e salina, quasi piccante. Il migliore del mazzo, pronto per la tavola. 91
- 2011 Annata equilibrata, meteo perfetto. Cioccolato bianco, ginepro, lieve fumé, fragoline, legni nobili. Bell’ingresso in bocca, estrazione ragguardevole, molto equilibrato tra frutto e struttura, chiude sul succo d’arancia. Gli manca solo l’allungo decisivo. 89
- 2012 Annata calda e siccitosa. Balsamico e speziato (pepe bianco), iodio, resina, radici, erbe aromatiche. Il tannino è ancora un po’ serrato, palato dolce e sapido, ma deve distendersi. Da attendere qualche anno. 87
- 2013 Annata molto fresca, quasi senza estate. Naso davvero delizioso, ciliegia fresca, lampone, capperi, tabacco fresco, spezie e caffè. Beva esemplare, vino segnato da una spiccata mineralità, estrazione molto misurata, chiusura di roccia e ribes, lieve esubero alcolico. 90
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