Tuoni e fulmini, tanta acqua a scrosci violenti sulle querce e gli olivi, il nervosimo dei cani per l’arrivo nel cuore del buio cilentano di misteriosi animali (cinghiali? Volpi memori del vecchio starnazzare delle galline?), freddo e salsiccia di fegato che sfricolea, ricordi e analisi su quello che avrebbe potuto essere e ciò che sarà, la piacevolezza di trovarsi tutto sommato con una mente molto agile, palestrata negli anni ’70. Questa la cornice della mia prima degustazione in atmosfera gotica, circondati dalla selvaggia natura del Cilento, nell’azienda di Bruno De Conciliis a Prignano, non lontano da Agropoli e dai templi di Paestum che danno il nome ad una delle igt più fortunate del Mezzogiorno.
I temi sono molti. Anzitutto il primo riguarda la tenuta dell’Aglianico cilentano, coltivato cioé su suolo emerso dal mare e non di natura vulcanica come nel resto della Campania e in Lucania. Il secondo è se lo stile di Bruno, sempre esuberante e mai scontato, regga al confronto con gli anni, se cioé questi vini sono ancora capaci di piacere dopo che la critica enologica ha completamente rovesciato la sua prospettiva. Ma anche noi, ovviamente, siamo cambiati. Il terzo riguarda la curiosità sul comportamento delle annate di cui ormai si inizia ad avere memoria collettiva in almeno una dozzina di degustatori professionali in Campania e questo è il primo elemento capace di poter prefigurare da qui a qualche decennio una tradizione vitivinicola degna di sopravviverci.
1997. L’inizio dell’avventura dopo la prima vendemmia bianca dell’anno precedente. Le uve sono della vigna della famiglia Verrone a Cannetiello, una mezza collina di 150 metri nel comune di Agropoli. I descrittori di questo rosso sono: determinazione e aggiornamento, no alle mezze misure, trovare le persone giuste, mai adagiarsi, sognare.
All’epoca la De Conciliis produceva uova, la Campania si era appena affacciata nel panorama nazionale e internazionale grazie al Montevetrano, e il Cilento totalmente sconosciuto come territorio se non dai suoi abitanti. Bruno decide di riconvertire l’azienda, deve fare i conti con le perplessità del papà Alessandro, la sostanziale novità rappresentata dall’ambizione di fare un vino importante, conosciuto cioé da tutti, nel Cilento e trova la chimica giusta con le persone giuste: Saverio Petrilli per l’enologia, il supporto amichevole di Silvia Imparato che gli dà alcune sue barrique di secondo passaggio, Antonio Fumarola per il commerciale. Tutti hanno investito se stessi nel progetto vitivinicolo: Antonio Fumarola, ad esempio,decide proprio in quel periodo di abbandonare il comodo posto fisso di insegnante di educazione fisica per dedicarsi in modo professionale e non nei ritagli di tempo alla società di vendita di vino Perlage con Angelo Munno. La sua lungimiranza di individuare tre aziende salernitane, Montevetrano, De Consilis e Maffini, al loro nascere va ricordata, come pure il suo impegnarsi come agente quando chi stava in piazza pensava solo ai toscani e ai marchi già affermati senza rischiare un secondo della propria giornata sul territorio. La frase di uno di loro, <in Campania putimmo fà sol ‘e pummarole> restrerà leggendaria nella storia della suppponenza conservatrice quasi quanto <spezzeremo le reni alla Grecia> .
Queste cose sono da ricordare quando si mette il naso nel bicchiere, perché non sono affatto scontate. In genere chi si sveglia la mattina senza aver fatto un cazzo in tutti i giorni che il Signore gli ha regalato, lancia spesso strali contro chi ha successo: forse perché mentre lui se la spassava al prezzo di rimanere anonimo e meschino, altri invece lavoravano sodo, rischiavano in prima persona, rinunciavano alle feste per lavorare, si sottoponevano a stress. Vale per tutti i lavori, anche per il Naima 1997 che già avevamo provato dal nostro amico fraterno Berardino Lombardo in questa bella occasione.
Vabbé, detto questo il vino era in ottima forma, secondo me aiutato addirittura dallo svolgimento solo parziale della malolattica ottenuta senza l’uso di batteri, mille bottiglie all’epoca, vendute 17.000 lire e la consapevolezza di aver fatto un rosso che resta. Al naso prevale la nota di cuoio, china, la freschezza è l’asse portante di un’annata per nulla facile, prima una gelata, poi la siccità. Tutti noi sui quotidiani scrivemmo (già dominavano le agenzie) che era l’annata del secolo in Europa perché così si era deciso a Montalcino, e quello, mentre ancora si doveva toccare il nadir, era il primo segno della crisi poi scoppiata nel 2008. Chè quando il commerciale detta i tempi, per l’agricoltura è finita sul lungo periodo. Quando ho iniziato a berlo a tavola, voglio dire con foglia e patate, salsiccia di fegato e lenticchie, un po’ di pecorino crotonese, al naso dominavano note di origano e timo secchi. Funzionava alla perfezione con queste ricette toste e cordiali. Vicini all’emozione.
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1998. Devo dire che la 1998, come tutti i numeri pari, mi sta un po’ sulle palle. Fatta questa osservazione scientifica devo dirvi che rispetto alla precedente c’è uno scatto evidente in direzione della gentilezza olfattiva, la frutta diventa centrale dopo una sua fugace apparizione nel precedente millesimo, ritroviamo le note balsamiche del legno dove il vino ha svolto la sua malolattica in modo completo e assoluto, le note sono intense e persistenti e su questo non mi ripeto più perché riguardano tutte e nove le annate. Dopo un po’ emerge una nota di cenere che spesso si ritrova nell’Aglianico. Qui la rotondità della bottiglia è forse dovuta all’aggiunta di altre due vigne, vecchie più o meno come quella di Cannetiello piantata nel 1971 dove, meglio precisarlo, l’Aglianico è accompagnato da piccole percentuali di piedirosso e sciascinoso, io credo anche da un po’ di montepulciano e barbera, molto diffuse in tutto il Cilento negli anni ’60 e ’70.
Non ho pensato 1998 quando ho ripescato le annate a tavola, era un po’ troppo rotonda per i miei gusti rispetto alle altre, anche se notevolmente più elastica e dinamica, soprattutto al naso, rispetto al cugino Taurasi della stessa annata. A proposito, anche la 1998 fu lanciata come annata del secolo, ma Veronelli a gennaio 1999 mise l’altolà a questa seconda stronzata.
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1999. Questa è davvero l’anno più importante post-metanolo. Anche se in cantina si sono commesse ingenuità come emerse dalla orizzontale irpina tenuta a La Maschera di Avellino la materia prima arrivata dalle vigne è stata eccezionale, sia per i bianchi che per i rossi, grazie ad un magico equilibrio naturale che ha mantenuto la temperatura fresca. Il risultato in questo caso è un vino molto elegante, segnato in bocca da un’acidità potente ma non invasiva che detta tutta la trama olfattiva e gustativa, con equilibrio di frutta, note balsamiche e sapidità molto molto piacevole. Qui si arriva ormai alle 5000 bottiglie, il prezzo resta sulle 17.000 lire e ci sono i primi segnali concreti di qualcosa di importante che sta nascendo all’ombra dei templi di Paestum. Qui le note di Fabio Cimmino scritte nel 2006 che restano sostanzialmente valide a distanza di quattro anni, anche se la frutta è passata un po’ in secondo piano. Da abbinamento.
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2000. L’annata 2000 avvia la stagione tropicale in Italia, difficile trovare rossi dinamici mentre i bianchi ce li siamo sostanzialmente dimenticati. Viene introdotto nuovo legno, la nota dolce olfattiva induce Bruno all’autocritica mentre anche per Mauro è troppo preponderante. Vero, ma non è affatto spiacevole e non la definirei ruffiana, resta comunque un dolce di frutta e non di spezie, in bocca l’acidità è salvaguardata. In vigna qui si cambia passo, si inizia a guardare all’ambiente e ad abbandonare la viticoltura tradizionale. Il vino è circolare ma dinamico, ossia non mostra segni di evoluzione con il passare del tempo ma non è immobile come tanti suoi coetanei di quell’annata miserrima. Magari è un vino un po’ autoreferenziale, nel senso che vuole essere bevuto da solo, domato e non selvaggio come il 1997, fruttato ma non elegante quanto il 1999, parente, insomma, del 1998. Qui le mie note del 2005.
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2001. Una premessa necessaria: questa bottiglia l’ho portata io e non è stata conservata nelle migliori condizioni. Sempre al buio, certo, ma non a temperatura costante e ha sofferto un paio di estati calde nell’appartamento di città perché all’epoca non avevo cantina in campagna. Il vino, sottoposto a salasso, conquistò i tre bicchieri e fu molto celebrato, il 45 giri di successo insomma. Ora è completamente flaccido e mollo: <Ho rovinato una grande annata, non lo farò più> dice Bruno. Le note di cotto, l’acidità quasi rientrata, il dolce esagerato al naso come in bocca lo avvicinano ad alcune caricature di supertuscans provate dopo una decina d’anni che implodono.
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2002. L’unica bottiglia disponibile di questo millesimo sfigato in cui la preoccupazione maggiore fu separare l’uva marcia da quella, poca, rimasta sana è una magnum. Tappo. Ne ricordiamo l’acidità e la pienezza al palato e il cambio di linea grafica con un leggero restyling. Nel 2002 cessa anche la collaborazione con Saverio Petrilli.
SV.
2003. Dopo la parentesi buia si inizia a risalire la china. L’esperienza comincia a dare i suoi frutti e Bruno riesce a dominare bene la frutta in vigna nonostante i 150 giorni consecuvitivi di siccità. Si vendemmia più o meno come gli altri anni, fine ottobre, anche un po’ più in là per cercare di consetire una ripresa. La frutta è sicuramente un po’ cotta, ma la dolcezza non viene dal legno e in bocca la freschezza c’è tutta. L’asso nella manica fu di svolgere anche la malolattica in acciaio, cosa poi ripetuta nelle annate successive e che ha evitato il peggio. In bocca il vino chiude bene, è dinamico, un nota amara controbilancia le sensazioni iniziali. Ben scavato vcchia talpa. Qui le mie note 2006.
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2004. Forse la migliore annata di tutte, conferma la tendenza positiva di questo millesimo che non finisce di darci belle soddisfazioni e che può essere considerata la prima vera vendemmia in Campania per quel che riguarda l’Aglianico. Qui le mie note per non allungare ancora di più l’articolo.
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2005. In attesa della sua evoluzione, ecco quanto scrissi nel 2008.
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Siamo in presenza di un grande vino? Le caratteristiche ci sono, storia decennale capace di allungarsi facilmente per alcuni anni ancora, un vitigno ben acclimatato, la capacità di restare uguale pur attraverso i cambiamenti di stile e le varie vicissitudini. Sicuramente il Naima ha cambiato l’impronta di un intero territorio, il Cilento, e aperto nuove piste. E molte altre ne aprirà.
Viticoltori De Conciliis, Prignano Cilento.
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