Ieri il Corriere della Sera ha dedicato una pagina a Napoli. La rilanciamo volentieri.
di Roberto Perrone
Sono tornato al Comandante. L’ultima volta al timone – è proprio il caso di dirlo, perché è dedicato dall’armatore Achille Lauro, «’o comandante», il cui busto troneggia nell’ingresso – c’era Andrea Aprea, ora al Vun del Park Hyatt di Milano. E non c’era questa vista, perché l’ultimo piano dell’hotel Romeo (un tempo il palazzo ospitava gli uffici della compagnia di navigazione Lauro e del giornale «Roma»), destinazione del ristorante, era inagibile. La faccenda si è risolta e ora il Comandante offre lo splendido panorama del golfo, a cominciare dal porto, proprio qui davanti.
Rivedere Napoli significa, per uno «straniero», tornare a gustare certi sapori che fanno parte della storia e della cultura nazionale. Un po’ come la canzone, anche la cucina napoletana appartiene all’Italia. Ed è interessante scoprire, ad ogni ritorno, che in una città bella, contraddittoria e restia (sotto molti punti di vista) ad aprirsi al nuovo, c’è, accanto a chi santifica nel migliore dei modi la tradizione, chi percorre nuove strade. Salvatore Bianco, giovane come Andrea, ha ripreso la via segnata dal suo predecessore, non più di tre, quattro sapori nel piatto, in modo che i prodotti del (ricco) territorio campano emergano con grazia e pulizia: assoluto di gambero rosso; genovese di bue e tonno secco; triglia e cappesante, pomodoro bruciato e crema di erbe.
Un altro (forte) segnale di movimento viene da Lino Scarallo, cuoco di Palazzo Petrucci che si affaccia su una delle più belle piazze napoletane (San Domenico Maggiore) luogo, come dice il sito del ristorante, «di palazzi storici, congiure, segreti e misteri». Prima di Pasqua abbiamo parlato della «stratificazione della pastiera», di Scarallo, mentre ora il percorso di rivisitazione del gusto ci appare nelle alici fritte ripiene di fior di latte, insalatina di puntarelle con salsa agrodolce di capperi e nel famoso timpano di paccheri all’impiedi ripieni di ricotta. Napoli, mille colori, come in una bella primavera. Impossibile, quindi, non accomodarsi ai tavoli della Cantinella, storico approdo della famiglia Rosolino, dove i segni del tempo (linguine alla Santa Lucia) si intrecciano con nuovi abbinamenti (fusilli al ferretto, alici e pomodori secchi, crema di scarole, bottarga di tonno e briciole di pane speziato).
Di cosa stiamo parlando, a proposito di Napoli in cucina? Di una città sospesa tra passato e futuro, piena di slanci ma che non dimentica mai da dove viene. Così non può mancare un passaggio nel borgo di Santa Lucia dagli Antichi Sapori di Gennaro Canfora «autentico presidio del gusto partenopeo dal 1949» lo definisce l’amico Luciano Pignataro: mozzarelle, provole, crocchè e altre delizie nel negozio, spaghetto a vongole, alici indorate e fritte in tavola.
Altri luoghi dove si respira un’aria «verace»: la Mattonella con le «riggiole» (chiamarle mattonelle sarebbe sminuire la storia che hanno alle spalle) alle pareti e il pane (da solo vale il pranzo), per la scarpetta agli ziti con la genovese. E che dire della pizza «torzella» (provola affumicata, torzelle del Vesuvio, pomodorini e scaglie di provolone del Monaco) da Umberto o della frittata di maccheroni di Mattozzi a via Filangieri? Nuove e apprezzabili declinazioni, infine, a Napoli mia (farfalle all’Aglianico con salsiccia al finocchietto castagne di Montella e scaglie di pecorino); alla Cantina di Triunfo (baccalà con trippa e salsa all’uovo); a Cap’Alice (gnocchi parigini confit, crema di friarielli, colatura di alici e pane al pomodoro).
E dopo aver visto (e mangiato) tutto questo, a Napoli, più che di morire, viene voglia di tornare.
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