di Fabio Panci
L’idea di intervistare Valentino Palmisano, l’xecutive-chef del ristorante“La Locanda” incastonato come una perla all’interno del prestigioso Ritz-Carlton di Kyoto, nasce dalle parole entusiastiche pronunciate da una coppia di carissimi amici sul suo modo di cucinare gli spaghetti al pomodoro. Partendo con l’intento di farmi svelare il segreto della ricetta, siamo finiti a parlare praticamente dell’intero percorso professionale di Palmisano, dalla scelta “all’ultimo tuffo” di iscriversi all’Alberghiero, passando per le esperienze in ristoranti prestigiosi a fianco di chef stellati come Glowig, Iaccarino, Lavarra, fino al suo approdo “per colpa dell’amore” in Oriente.
Mi hanno riportato giudizi super lusinghieri sui tuoi straordinari “spaghetti al pomodoro”.
Mi puoi raccontare come è nata l’idea di metterli nel menù?
“Ho sempre avuto in mente di inserire alla carta questo piatto, vero e proprio portabandiera della cucina italiana nel mondo. Non riuscivo però a trovare la giusta forma di proposizione di un piatto semplice ed al tempo stesso complicatissimo. Nel corso di un viaggio aereo da Shangai a Kyoto vidi una foto su una rivista di bordo e capì cosa dovevo fare. Cominciai un lungo lavoro di ricerca sulla qualità della pasta (ne ha testate ben 24 tipologie diverse), la tipologia di pomodoro (variando in base alla stagionalità), parmigiano (solo vacche rosse), olio ( extravergine d’oliva nocellare del Belice) e basilico ( autoctono di Kyoto). Ne è venuto fuori un piatto minimal, profumatissimo, dove la salsa è bianca (ottenuta con un procedimento fisico, fatto di calore e filtratura, con naturale separazione del succo dei pomodori dai loro pigmenti), ma il gusto è quello tradizionale napoletano”
Facciamo adesso un passo indietro, partendo dal “dove” e dal “come” hai scoperto l’amore per la cucina.
“Non posso fare altro che indicarti il seguente indirizzo: Via Montagna Spaccata a Pianura – Napoli. Proprio là davanti all’edicola di famiglia, da ragazzino ascoltai per la prima volta i racconti sulla bellezza del lavoro di cuoco, fatti dallo chef Mariano Teano. Parlava del lavorare in cucina come la professione più bella del mondo, lo faceva con un tale amore da lasciarmi letteralmente stregato. A meno di un mese dall’inizio delle lezioni chiesi a mio padre di iscrivermi all’Istituto alberghiero, lui rimase un po sorpreso visto che mi ero gia iscritto all’istituto ottico, ma accontento sena indugio il mio desiderio”.
Mi puoi indicare le persone fondamentali nel tuo percorso professionale?
“Il primo è il prematuramente scomparso Felice Ponari persona chiave che mi ha fatto amare questo lavoro. Chiaramente non posso non fare il nome di Oliver Glowig. Un vero e proprio mentore a cui devo le basi del mio essere cuoco. Il primo a livello professionale che ha creduto fermamente in me, prendendomi sotto la sua ala protettrice in giovanissima età sino a farmi spiccare il volo. Poi Pino Lavarra, uno dei più bravi chef che conosca. La sua creatività, la grande classe dei suoi piatti, faccio ancora oggi tesoro dei suoi insegnamenti. Infine last but not least faccio il nome di mio padre. Il primo a sostenermi nei numerosi momenti di difficoltà incontrati soprattutto agli inizi della mia carriera, a consolarmi quando tornavo a casa in lacrime dopo faticosi turni di lavoro come lavapiatti. E’ stato lui ad insegnarmi di non mollare mai, credere sempre nelle mie qualità, privilegiare nella scelta di un luogo di lavoro l’esperienza che ne potevo trarne e non tanto i soldi da mettere in tasca.”
Cominciamo con alcune brevi ricordi del tuo giro, prima d’Italia e poi del Mondo, in cucina.
“Partiamo innanzitutto dall’incontro con Oliver Glowig, avvenuto a Milano al Four Season dove stavo facendo uno stage. Mi prese di sorpresa invitandomi a seguirlo a nemmeno 20 anni di età al Capri Palace. Fu un’esperienza bellissima ed al tempo stesso molto impegnativa. Oliver in cucina pretendeva moltissimo, era molto severo ed estremamente puntiglioso in ogni singolo dettaglio di ciascun piatto. A ciò aggiungiamo che dopo neanche due settimane dal mio arrivo il capo-partita andò via, e fui scelto proprio io a sostituirlo. Mi feci una stagione intera sui primi piatti e non potevo chiedere altro a quell’età e con il mio limitato bagaglio d’esperienza. Seguì poi il periodo al Don Alfonso, il sogno di una vita per ogni cuoco napoletano, il mio obiettivo da sempre. Entrare in quella cucina a soli 22 anni è difficile da descrivere, un’emozione infinta”.
Poi ancora “stellati” a Ravello e Verona…
“Iniziamo da Palazzo Sasso a Ravello. Personalmente andavo sempre a mangiare in un ristorante prima di iniziarci a lavorare, mettendo da parte un po’ di soldi per varcare anche le soglie degli “stellati”. Mi innamorai subito della cucina di Pino Lavarra, e a fine cena lo pregai in ginocchio perché mi prendesse a lavorare con lui. Conservo ricordi bellissimi di quel periodo, con la ciliegina sulla torta costituita dalla conquista della seconda stella michelin. Terminata la stagione estiva a Ravello andai all’Arquade da Bruno Barbieri, anch’egli fresco di 2° stella Michelin. Cuoco sublime, di cui ho sempre apprezzato la bellezza e il grande gusto dei suoi piatti.
Continuiamo con Saint Moritz e ancora Capri…
“Dopo Verona decisi di prendermi un breve periodo di pausa, perché lavorare in ristoranti stellati a 24/25 anni ti logora fisicamente e psicologicamente. Decisi quindi di andare a Saint-Moritz, convinto di riposarmi un po’ ma in realtà anche lì fu durissima. Viaggiavamo al ritmo di oltre 500 coperti, giorno e sera. Poi tornai a Capri per 3 stagioni ancora con Glowig. In quegli anni nella cucina del Capri Palace era come giocare nel Real Madrid avendo come compagni di brigata gente del calibro di Migliaccio, Cuomo, Iavarone, De Vivo, Elefante. Lavoravamo benissimo, ognuno con i suoi precisi compiti, diretti da un maestro d’orchesta d’eccezione come Oliver. Ancora oggi con molti di loro mi sento regolarmente, uniti da un grande affetto oltre che stima professionale”.
Fino ad arrivare a Tavarnelle in Val di Pesa..
“Come ultima tappa della mia esperienza italiana c’è una regione ancora oggi rimasta nel mio cuore: la Toscana per l’appunto. Lì nel cuore del Chianti, presso lo splendido Castello Del Nero, ho vissuto con enorme gioia ed anche un pizzico di preoccupazione, la mia prima esperienza da executive chef. Non finirò mai di ringraziare l’allora direttore Andrea Luri per la possibilità offertami, che mi consenti di assumermi un’enorme responsabilità sulle mie spalle ed al tempo stesso mi rese consapevole di poter guidare in autonomia il ristorante di un resort a 5 stelle”.
Per colpa della tua dolce metà si apre poi il “fronte orientale” prima con Shangai…
“Proprio così è stato l’amore, per quella che sarebbe poi diventata mia moglie, a farmi lasciare l’Italia. Avendo lei ricevuto un’offerta di lavoro in Cina, ho subito pensato che era molto più difficile trovare la “metà giusta della mela” piuttosto che un buon posto di lavoro. In Cina dopo un primo periodo di apprendistato (n.d.r. – lavorava come chef presso un ristorante-pizzeria di alcuni amici) ho aperto con Sabatini, nel 2011, il primo ristorante italiano in Cina che non prevedeva pizza nel menù. Ricordo ancora oggi il rosso fuoco della cucina, tutta ideata da me, con una brigata eccellente e con un altissimo gradimento da parte della clientela. Terminata per divergenze con la proprietà cinese la mia esperienza al Sabatini, ho viaggiato per circa 6 mesi andando ad approfondire la mia conoscenza della cucina orientale (in particolare la tradizionale kaiseki) con alcune collaborazioni con prestigiosi ristoranti”.
Successivamente a Kyoto…
“La chiamata da parte del Ritz-Carlton arrivò nel Natale 2013 e furono tre le ragioni per cui accettai l’incarico che ancora oggi ricopro con grande soddisfazione. Innanzitutto l’avere al mio fianco Tatsuya Ozawa , (già commis di Palmisano ai tempi dell’esperienza con Barbieri). Una presenza ancora oggi imprescindibile nella mia cucina. In secondo luogo la maniacalità dei giapponesi nel rispettare la stagionalità dei prodotti. Gli ingredienti dei miei piatti non sono dettati da me ma dal rispetto delle stagioni, tanto che siamo costretti a cambiare menù massimo ogni mese e mezzo. Infine il direttore all’epoca del Ritz-Carlton Yugi Tanaka, il quale mi fornì carta bianca quanto all’organizzazione del mio lavoro e del mio staff, a patto di rispettare una semplice condizione: la soddisfazione massima del cliente”.
Parlando in termini di “mission” cosa deve rappresentare la tua cucina?
“Un’autentica cucina italiana. Certo detto così sembra il classico motto del cuoco italiano. In realtà dietro a questa affermazione c’è un lavoro immenso, certosino, mirante alla qualità assoluta in primis degli ingredienti, poi nella presentazione e non da ultimo nel gusto di ciascun piatto. Mi faccio custode di antiche tradizioni culinarie, risalenti anche ai tempi di mia nonna ma quello che vado a prendere è il ricordo di un ricetta, il suo imprinting sui miei occhi e palato, riportandolo coadiuvato dalle tecniche culinarie moderne a coloro che decidono di varcare la soglia del mio locale. Anche perché uno dei motivi principali nella scelta di un ristorante italiano, quando siamo all’estero, è proprio la sensazione di trovarsi esattamente in Italia”.
Arrivando infine all’argomento vino, mi indichi almeno tre vini che non devono assolutamente mancare nella carta del tuo ristorante?
“Il primo è il Millesulmare della piccola azienda etnea Santa Maria La Nave, il quale ha letteralmente cambiato i miei parametri gustativi in tema di vini bianchi. Uno qualsiasi, impossibile scegliere vista la loro estrema unicità, tra quelli di Miani. Infine, senza andare a citare uno o più produttori, i vini della mia terra natale ergo Greco, Fiano e non può mancare un grande Taurasi”
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