di Pasquale Carlo
Camaiola il vino rosso che non può mancare sulle tavole del Carnevale. Che si sposa bene sulla ricca e robusta lasagna tradizionale, quella preparata con ragù, fiordilatte, polpettine di carne macinata, uova, salsiccia e ricotta, ma che non si tira indietro su alcune preparazioni tipiche delle aree interne campane, come i Vermicelli pertosani, il Pastiere montorese e la Scarpella di Castelvenere: vere e proprie antenate della Carbonara, preparate con uova, formaggi vaccini e pecorini in diverse varianti e salsiccia stagionata.
Parliamo del vino ottenuto da un vitigno coltivato soprattutto nell’areale telesino, quella barbera che barbera non è, che in occasione di questo Carnevale si prepara a togliersi definitivamente la maschera che ha tenuto nascosta la sua identità per un secolo esatto. L’operazione è partita da Castelvenere, il «paese più vitato del Sud», dove recenti ricerche hanno portato alla luce la coltivazione, agli inizi del ‘900, di una varietà chiamata camaiola, il cui nome scompare proprio quando prende ad affermarsi – a partire dallo stesso paese – quello di barbera. La storia è lunga, si intreccia con l’emigrazione temporanea nel Nord America di quelli che poi diventarono i primi produttori-imbottigliatori castelveneresi, che Oltreoceano conobbero la grande notorietà del nome barbera, allora il vino più famoso al mondo. Si intreccia con vicende religiose, considerato che proprio in quei decenni era forte l’attivismo in questo paese del Sannio di una cellula valdese (con un forte scambio con il Piemonte). E si intreccia – vuole il caso – con la necessità di quei vignaioli di distinguere il proprio prodotto rispetto al «vino Solopaca», che in quei decenni andava affermandosi con forza, anche grazie al fatto che quella di Solopaca era la stazione ferroviaria da cui partivano i vini diretti al Nord e Oltralpe, dove la fillossera aveva infierito sulle vigne.
Camaiola, riferendosi ad un termine provenzale (la lingua ufficiale dei Valdesi), identificherebbe una varietà capace di «macchiare di nero», un’uva dall’alto potere colorante, proprio come questa barbera che barbera non è, utilizzata nei decenni scorsi per «colorare» i vini, proprietà esaltata anche con tecniche di concentrazione (sul fuoco o infornata secondo l’antica tecnica detta «acinata»). Quest’uva, fino a quando la maggior parte del prodotto dell’area (la «cantina della Campania») veniva smerciato sotto forma di frutto, veniva trasformata esclusivamente in loco, a causa delle caratteristiche della sua buccia che ne rendevano praticamente impossibile il trasporto.
Il colore è sicuramente uno dei tratti distintivi di questo vino: rosso intenso con marcati riflessi violacei. Ma è al naso e al gusto che la sua identità si palesa: frutta rossa matura, frutti del sottobosco e marcata rosa, con accennate note vegetali; sorso pieno, intenso, morbido, poco tannico, con il finale affidato al ritorno di frutta.
Parliamo di caratteristiche che lo fanno vino della festa e dell’allegria, vino della convivialità, ma non per questo banale e facile. Questa camaiola – come la barbera la declinazione è al femminile – è un vino moderno, perché leggero e bevibile, godibile su tanti piatti tipici della cucina campana. Un vino al tempo stesso antico, per il suo essere profondamente radicato al territorio e a varie tecniche di vinificazione, gelosamente custodite da produttori con secolari storie enologiche familiari alle spalle.
Il dibattito delle prossime settimane – a cui dovranno portare il contributo tutti i produttori sanniti di vino barbera e tutti i protagonisti della filiera vino – sarà tutto centrato ad individuare il percorso migliore per «ridisegnare» il preciso volto di questo antichissimo vitigno capace di donare vini che fanno assaporare un territorio unico e la sua profonda anima vignaiola.
Intanto i più esigenti, quelli che dopo il sostanzioso primo piatto carnevalesco sono pronti per passare direttamente al dolce, potranno continuare a berlo sulle classiche polpette al sugo oppure sulle salsicce alla brace. Anche in questo caso la camaiola non si tira indietro, contribuendo a prolungare la festa.
I PRODUTTORI
La storia in bottiglia inizia nel 1974, per volontà del castelvenerese Salvatore Venditti, anima di Anna Bosco, azienda oggi curata dai figli Filippo e Mario, che presenta le etichette Don Bosco, Armonico e Ororosso e un rosato.
Barbarosa è invece il nome del rosato di Simone Giacomo, una delle ultime cantine nate a Castelvenere, che produce anche la versione rosso.
Vendemmia 2017 in commercio per la Dop Sannio di storici produttori castelveneresi: Barbetta di Venditti, anche nella versione Assenza (senza solfiti, lieviti e tannini aggiunti); Castelle, Torre Venere, Vigne Sannite; Petrare; Foresta; Scompiglio; Mario Pacelli; Thelemako di Fontana delle Selve; Anima Vennerese, prima versione Dop alla Vinicola del Sannio. Igp è Radici di Di Santo, Neropiana e Costa delle viole delle cantine guardiesi Morone e Iannucci e Vianova della paupisana Torre del Pagus. Poi le Dop Sabba della guardiese Grotta delle Janare, de La Vinicola Del Vecchio (Telese) e della Cantina di Solopaca; a La Guardiense le uve vengono utilizzate per il Quid in versione rossa. Non d’annata le etichette Dop di Fattoria Ciabrelli (Rapha’el è 2015) e della Vinicola del Titerno dei fratelli Alfredo e Talio Di Leone attiva a Massa di Faicchio. Lasta but not least, Grotta di Futa de ‘a Cancellera
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