di Pasquale Carlo
Uva agostinella, vitigno storico. Le uve dell’ultima vendemmia sono state destinate per un passito. Quelle della vendemmia 2015 presero invece la strada delle bollicine, per la produzione di un metodo classico. Giuseppe Lavorgna, giovane vigneron laurentino con radici castelveneresi e anima dell’azienda «A’ Canc’llera», è uno dei viticoltori più convinti circa le potenzialità del vitigno agostinella. Nella sua azienda queste uve vengono vinificate in versione passito se l’annata è particolarmente calda e asciutta; in caso di annate segnate da maggior fresco ecco che si delinea il percorso delle bollicine. Noi abbiamo provato entrambe le versioni, cogliendo risultati veramente apprezzabili. Mai stucchevole il passito, interessante lo spumante (sboccatura 2016), con ben trentadue mesi di sosta sui lieviti.
Parliamo di un vitigno particolare, unico al mondo, che negli anni scorsi ha rischiato seriamente di scomparire. L’uva agostino (in questi ultimi decenni chiamata agostinella) oggi viene allevata nelle campagne dell’azienda della famiglia Lavorgna (soprattutto per la determinazione di papà Italo), in quelle di due viticoltori castelveneresi che conferiscono le uve alla struttura di ‘Vigne Sannite’ (che ne ricava un Beneventano Bianco interessante) e tra le vigne dei fratelli Carlo e Giuseppe Lavorgna a Massa di Faicchio, oltre a poche piante disseminate in vitigni di vecchio impianto.
Le prime notizie di questo vitigno si apprendono da un Bollettino del Ministero di agricoltura, industria e commercio relativo ai ‘Saggi gleocometrici ed acidimetrici dei mosti italiani della vendemmia 1911’. Si trattava di uno studio della composizione dei mosti delle uve raccolte nella provincia di Benevento. Tra queste spiccava l’uva agostina del vitivinicoltore castelvenerese Raffaele Moccia, allevate a sostegno misto (sostegno vivo e sostegno morto) in terreno argilloso, localizzato nella zona che va verso Cerreto Sannita (contrada Foresta?). Quelle uve fecero segnalare un grado gleocumetrico di 19,50 (dietro solo alle uve rosse, in particolare l’aglianico di San Giovanni di Ceppaloni e l’aglianico, la nocella e la vernaccia d’Arola di Solopaca) e un’acidità di 4,50 (in assoluto la più bassa tra tutti i mosti valutati).
Qualche anno dopo, questa stessa varietà, la troviamo tra le “barbatelle nostrane” del vivaio di Luigi Di Cosmo (sempre a Castelvenere), segnalata con il nome di agostignia bianca.
A distanza di qualche decennio, nelle cantine dello stesso Di Cosmo, veniva prodotto un vino Agostenga (“specialità della ditta, ottimo per desserts, apprezzatissimo anche all’estero”) che venne premiato nel 1925 a Cortemilia (nelle Langhe), nel 1926 a Fiume, nel 1927 a Firenze e nel 1928 a Liegi; lo stesso, nel 1929 alla Fiera campionaria di Milano ottenne dagli enotecnici “il più favorevole giudizio mettendolo alla pari dei più decantati vini bianchi italiani e anche del Reno”.
Quell’uva agostigna e/o agostenga, all’indomani della Seconda guerra mondiale, ritornò a chiamarsi agostino, varietà che stava particolarmente a cuore ai produttori castelveneresi. Ne abbiamo conferma nel lavoro ‘Contributo alla conoscenza del vino Solopaca’ (1969), curato da quattro studiosi dell’Istituto di industrie agrarie dell’Università di Portici, sotto la direzione di Flaminio Albonico. Nello studio vennero analizzati ventisette campioni di vino rosso e quattordici di vino bianco, prodotti da agricoltori di quattro Comuni della Valle Telesina: Castelvenere, San Lorenzello, Solopaca e Telese. Tra i quattordici campioni di vino bianco, ben nove erano attribuiti ad aziende venneresi: l’uva agostino entrava a far parte dell’uvaggio di almeno sei di questi nove vini.
Nel corso della ricerca, l’imbatterci con quel vino Agostenga di Di Cosmo aveva sollevato l’ipotesi di un possibile collegamento con il Nord Ovest della Penisola, per la precisione con il Piemonte, dove nel passato era particolarmente diffusa la varietà di uva agostenga, citata a partire dal Seicento. Ipotesi “raffreddata” da un attento scambio di informazioni con l’ampelografa Anna Schneider, ricercatore CNR – Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante di Grugliasco (Torino), che affermava come la cultivar in questione non avesse uguali in Piemonte, anche includendo vecchi vitigni in via di abbandono e quindi assai rari da trovare. Ipotesi recentemente scartata del tutto da un altro importante studioso, l’ampelografo-genetista svizzero José Vouillamoz che, forte dei suoi studi sul DNA dell’agostinella, afferma chiaramente che si tratta di un vitigno «unico al mondo, che non corrisponde a nessun’altra varietà», compresa la scomparsa agostenga piemontese (che secondo gli studiosi oggi “rivive” nel priè blanc valdostano).
Notizie preziose in merito giungono dal recentissimo lavoro ‘New autochthonous vines of Campania under evaluation for inclusion in productive sector’, opera di diversi studiosi (Caputo, Alba, Bergamini, Gasparro, Masi, Tarricone, Crupi, Roccotelli, Pepe, Del Lungo). Lo studio è stato presentato nell’ambito del quarantaduesimo World Congress of Vine&Wine svoltosi a Ginevra (Svizzera) lo scorso luglio.
Questo studio parte dalla convinzione che la Campania, nonostante la base ampelografica ampia e variegata, conosce poco del proprio patrimonio genetico viticolo. Nel corso degli ultimi tre anni, gli studiosi hanno puntato l’attenzione su di un’area che comprende l’estremo Cilento, le coste della Penisola Sorrentina e le campagne sannite di Castelvenere e Solopaca. Dalle colline attraversate dal Calore sono giunte le varietà: Cocozza, Agostina e Uva Urmo (a bacca bianca) e le due Vernacce (d’Arulo e di Vigna) e la Tentiglia (a bacca nera). L’identificazione molecolare è stata effettuata mediante l’estrazione del DNA genomico utilizzando 9 diversi marcatori SSR (VVS2, VVMD5, VVMD7, VVMD27, VrZAG62, VrZAG79, VVMD25, VVMD28 e VVMD32), selezionati per la possibilità di essere confrontati con il database presente nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite del Mipaaft e con i principali database di riferimento (il catalogo europeo ‘Vitis International Variety Catalogue’, quello nazionale www.vitisdb.it, oltre naturalmente al database interno del Crea-Ve di Turi).
“I profili molecolari delle varietà individuate, reinterpretati alla luce delle fonti storiche e del dato archeologico, testimoniano – si legge nello studio – una condivisione di patrimonio genetico che richiede un approfondimento. Rispetto alle apparenze non ci sono barriere culturali fra Golfo di Napoli ed entroterra sin dai tempi della colonizzazione magnogreca […] Costa ed entroterra sviluppano una propria biodiversità viticola beneficiando dei contatti e degli scambi reciproci di varietà. Ancora in pieno XVI secolo la Penisola Sorrentina costituisce con il Golfo di Napoli, il Vesuvio e il Beneventano un sistema di aree viticole fortemente vocate e in stretta relazione fra loro. […])”. Delineano il fenomeno la prossimità molecolare delle varietà indagate e le sinonimie introdotte ad uso commerciale (il Grecum vinum per la Cocozza, la Agostina e l’Uva Urmo […])”.
Nella tabella (ripresa dal sito www.bio-conferences.org) sono riportati i profili molecolari unici dei nuovi vitigni autoctoni individuati con le denominazioni in vernacolo. I profili genetici sono rappresentati con caratteri descrittivi (marcatori SSR), espressi in valori pb (paia di basi) osservati nella coppia di alleli di ciascun microsatellite, indicati come distanze relative espresse in paia di basi dall’allele di riferimento di dimensione n.
Questi vitigni sono stati caratterizzati anche mediante descrittori ampelografici primari e secondari rilevati su germoglio giovane, foglia giovane e adulta, grappolo e acino, utilizzando la metodica della seconda Edizione del Codice dei caratteri descrittori dell’O.I.V. (Scheda ampelografica, 2001).
Uva agostinella, vitigno storico
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