Un simbolo di fronte al cambiamento ha solo due possibilità: cavalcarlo o testimoniare la fine del passato. In memoria del Vicolo della Neve

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista
Il patron del Vicolo della Neve, Matteo Bonavita

Il patron del Vicolo della Neve, Matteo Bonavita

Rilancio qui il pezzo scritto per la cronaca di Salerno del Mattino a commento della chiusura del Vicolo della Neve

Ci sono locali identitari per alcune generazioni o per una intera comunità.
Il Vicolo della Neve lo è stato per entrambe almeno per tutto il ’900 sino a diventare, per molti decenni, l’unico riferimento gastronomico per chi veniva da fuori città. Questo il motivo per cui la chiusura della gestione di Matteo Bonavita, colui che fece rivivere lo storico locale nel cuore del centro storico, è una notizia che colpisce i salernitani.
Sono tante le considerazioni che si possono fare su questo epilogo malinconico, la prima è un paradosso: l’emblema della gastronomia salernitana chiude in un momento in cui in città non si è mai mangiato così bene. O meglio, in un momento in cui finalmente un numero di ristoratori superiore a dieci, anche venti va, punta alla qualità della proposta come chiave per fare reddito invece di giocare al ribasso come ancora fa la maggioranza dei ristoratori del congelato.

Il Vicolo della Neve chiude a Salerno

Dalla stella Michelin del Re Maurì, alla segnalazione della rossa su Pescheria, alla nascita di locali di assoluta eccellenza, specializzati nel monoprodotto (pizzeria, pasticceria, braceria) dobbiamo dire che negli ultimi cinque, sei anni, la qualità della proposta cittadina è sicuramente migliorata. In questa corsa alla qualità si registra, di converso, la chiusura della storica bandiera della gastronomia salernitana, quella cantata dal suo poeta maximo Alfonso Gatto oltre che da fior fiore di artisti, intellettuali, suonatori e attori che hanno frequentato questo locale scegliendo imperterriti il suo menu museale: baccalà e patate, pasta e fagioli ripassata nel forno al legno, parmigiana di melanzane, pizza, calzone con la scarola, cotica, polpette al sugo, peperoni imbottiti e tutto il repertorio della cucina povera che dall’Ottocento in poi ha sfamato tutte le classi sociali con la sua golosità e i suoi eccessi di grasso.

La seconda considerazione è che si conferma la gestione familiare croce e delizia dell’Italia: la famiglia e non l’azienda capace di resistere meglio alle guerre, ai terremoti, alle pestilenze grazie alla sua elasticità, la forza del nostro Paese dell’enogastronomia. La famiglia che però scrive la parola fine quando per una ragione o per l’altra viene a mancare il ricambio generazionale.
Siamo infatti così sicuri che le generazioni salernitane dai trenta in giù si rivedano in questo locale e vivono come un lutto la sua chiusura come avviene per quelle che le hanno precedute? Evidentemente no.
E qui viene la terza considerazione: il Covid ha accelerato tuti i processi in corso ed è intervento nella gastronomia, come nella vita sociale, come nei corpi degli individui in maniera incisiva. Quelle stanze piene di fumo in cui si entrava e si mangiava nei tavolini l’uno sull’altro, le bottiglie di vino rosso fresco senza etichetta che si stappavano come fossero Champagne, quella cotica così saporita che manco a casa la facevano così buona, quei camerieri che ti tiravano verso il loro tavolo, quel servizio aperto a tutte le ore sino a tarda notte in un centro storico allora vuoto e spettrale, non sono altro che una oleografia del passato. Non fosse altro perché al ristorante non si fuma più da anni. Ne parliamo con nostalgia, come quando incrociamo il viso di una persona di cui siamo stati innamorati da giovani e in cui vediamo ancora quella bellezza che ci ha fatto palpitare la notte sul cuscino, una bellezza che agli occhi di un giovane non è altro che un viso invecchiato come un altro.
La cotica, ma chi la mangia più? E tutti i discorsi sugli impasti ben lievitati, la qualità degli ingredienti, tipici del mondo pizza che ha portato al boom degli ultimi anni, non erano mai entrati nel Vicolo della Neve. E le carte dei vini e delle birre? Qualcosina, certo, ma ben distante dall’ossessione moderna prodotta dai decine di partecipanti ai corsi Ais, Fisar, Onav e Fis. In fondo ho capito che un’epoca si chiudeva per sempre quando alla mia proposta di andare al Vicolo mi fu risposto, ed eravamo ancora negli anni ‘80: no, troppo pesante.
La bandiera è l’ultima ad essere ammainata, prima c’è la ritirata sul campo e mi rendo conto che solo noi baby boomers della felice Salerno degli anni ’60 e della fervida e frizzante città degli anni ’70 possiamo rimpiangere quel baccalà che navigava nell’olio, quelle golose polpette fritte e ripassate nella salsa, la mitica pasta e fagioli arruscata nel forno a legna, il sensuale peperone grondante imbottitura, la clamorosa scarola ‘mbutunata e tante tante delizie. Oggi il modo di mangiare è completamente cambiato e anche chi recupera queste preparazioni deve stare bene attento a renderle light, per non parlare delle sublimi cotiche e milza che oggi il 99,9% dei giovani rifiuta di mangiare, rinunciando così al sapore dell’animale, a causa di un palato piallato dagli omogeneizzati e dal cibo in plastica pensato dagli scienziati pazzi delle multinazionali.
Il Vicolo della Neve chiude perché non c’è più quella Salerno, dove la musica non era sparata a palla perché le persone parlavano e non chattavano. Quando la mezzanotte non era l’orario dell’uscita, ma della ritirata anche se avevi più di 18 anni. Il Vicolo chiude come una casa in pietra circondata da anonimi palazzoni di cemento abbandonata dagli abitanti.
Riaprirà? Lo speriamo vivamente, ma non potrà mai essere come prima. Al posto di quelle bottiglie di rosso con il tappo di gomma ci saranno i gin tonic, il peperone imbottito diventerà un amuse bouche in un cucchiaino, la scarola sarà servita con il suo brodo a parte filtrato e magari la pasta e fagioli sarà un ramen salernitano con i noodles al posto degli ziti.
Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume sentenzia Eraclito.

Per questo quelle polpette non le rivedremo più.


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