di Fabrizio Scarpato
Aveva la pelle che profumava di arance. “Mii’… io sono nata a Ribera, e tra le arance ci sono cresciuta”. Lo diceva lasciandosi andare a quella cadenza siciliana che mi piaceva tanto, un chilo di sfrontatezza, un filo di mascolinità. Non c’era verso che potesse prendere una qualche inflessione toscana: era venuta al nord per studiare, ma sembrava sempre dovesse fermarsi per poco, non stava mai ferma, come se fosse strattonata da un elastico che la riportava a casa, anche solo per un momento, anche solo col pensiero, con un gesto o una parola. Era in quei momenti che i suoi occhi neri diventavano ancora più luminosi.
E invece restò su per più di quattro anni, ricaricandosi di sicilianità a Natale, Pasqua e in estate: il tempo comunque sufficiente perché mi innamorassi di lei. Ricordo la sua casa, la nostra casa, vuota e tranquilla, dove aspettavo il mio amore lontano: pochi mobili, un mucchio di barattoli di conserve, di marmellate, di tonno e pomodori secchi, mandorle, arance e limoni… e vino, ruvido, sporco, violento. Dopo quel giorno non sono più tornato in quella casa, come è vero iddio, ma oggi, tra queste mura sicuramente più calde e confortevoli, mi ritrovo a pensare a lei, davanti a questo bicchiere di chardonnay. “Cristo, ma come fai a bere ‘sto vino… prova uno chardonnay, e lasciati un po’ andare…” le dicevo, mentre mi guardava divertita per le smorfie di disgusto che facevo. Erano altri tempi, anche altro vino.
Infatti questo non è per nulla indulgente, con quelle sciabolate grigio verdi al limite del metallizzato, a venare un tentativo di giallo paglierino la cui buona volontà si manifesta in decisi bagliori dorati. Piccoli tentativi di morbidezza, melone e fiori gialli, vengono spazzati via da una pungenza ventosa e verde, di mela e di cedro, di erbe aromatiche e rosmarino, di zenzero e anice, in una durezza diritta, affumicata e sassosa, eppure così intensamente vitale, intrigante, disarmante. Come era lei, in fondo. Anche quel giorno.
In quella primavera del ’78 avevo capito che l’elastico si sarebbe spezzato, senza essere in grado di prevederne gli esiti. Il 16 marzo si sarebbe laureata, e già quello sarebbe stato un bello strattone. Via Fani e il rapimento di Aldo Moro congelarono l’Italia e anche noi due, beneficiati di un tempo insperato e indefinito, ma anche indefinibile, perché vissuto senza speranza, trascorso boccheggiando, in un’angoscia che chiedeva di riavvolgere il nastro, di riprovare a vivere: l’esame di fisica, un concerto, un corteo, un barattolo di marmellata di fichi. Il 9 maggio ci colse sul mare, più grigio del piombo brigatista, e disperatamente immobile, come l’aria che a bocca aperta si cercava di respirare, sentendo che non sarebbe stata più la stessa. Disse che si sarebbe laureata due giorni dopo, la sera, da sola, quasi clandestinamente, e che sarebbe partita subito, salendo sul primo treno, portandosi via tutto, o forse lasciandolo lì, per sempre, me compreso, insieme alla nostra gioventù.
Bevo. Ed eccola qui: essenziale, all’inizio il sorso è come contratto, timoroso, ma poi si allarga al centro, e diventa pieno e appagante, con le sue striature di fumo e caffè (ah, quelle sigarette…), i richiami di pietra, la gentile freschezza della pera abate e della mela fuji, succose e persistenti in una salivazione schioccante, senza alcuna leziosità. E’ sempre lei anche in quel finale salato, amaro e tagliente: come il suo sguardo, in quella mattina in cui prese il treno, seduta accanto al finestrino, da dove avrebbe visto l’Italia passare ai suoi piedi, cambiare i colori, gli occhi talora fissi su una striscia indefinita di velocità che la stava portando via. Anche il mio chardonnay sembra abbandonarsi a quella durezza di sentimenti, senza riuscire a trovare equilibrio. Poi improvviso, da lontano, affiora il profumo e il sapore delle arance. E mi commuovo.
Ora i tempi si sa che cambiano,
passano e tornano tristezza e amore..
…io nel frattempo ho scritto altre canzoni,
di lei parlano raramente, ma non è vero che io l’abbia perduta,
dimenticata come dice la gente…
Crediti
Francesco De Gregori, Renoir