di Fabrizio Scarpato
Piove a dirotto. La pioggia picchia sui vetri della finestra e mi innervosisce. O forse è questa luce verde che attraversa strafottente la stanza, illuminando di taglio una carta da parati che non mi piace. Un tavolino con un vaso di fiori in controluce, una sedia sul parquet scricchiolante e le tende alla finestra come in quel quadro di Matisse. Manca il letto, nel quadro. Meglio così, che questo è sfatto e sottosopra: avrebbe corrotto quell’aria sospesa, come di qualcosa che deve accadere in un caldo pomeriggio d’estate. Qui invece è già accaduto tutto e lei s’è addormentata tra le lenzuola: è molto bella, anche se al momento non ricordo esattamente il suo nome.
“Volluto?” Anche questa volta è successo così. Giro l’Europa e vendo macchine da caffè, caffè in capsule: sales manager c’è scritto sul biglietto da visita e sulla faccia dei paraculi. Fiere, grandi eventi, boutiques. Qui a Parigi oggi ero al Ritz: bella gente, o meglio gente di merda, ma belle donne. Capsule di sopravvivenza: due parole, vuole assaggiare… Volluto? Non sarò George Clooney ma ho deciso di vivere così: se vuoi separare due persone che si voglione bene, falle stare insieme solo qualche giorno. Ho deciso di voler bene solo un po’ per volta. Io e George abbiamo più o meno la stessa età: non so lui, ma certamente io, molto spesso, sono un insopportabile cialtrone.
Almeno oggi mi sento così: i’m stumbling down, inciampo nei pensieri. You’re stumbling down è la constatazione finale di Teardrop, ma nonostante le gocce sui vetri non è atmosfera da Massive Attack, troppo raffinati, poco parigini, rarefatti e incalzanti. Eppoi c’è chi beve solo Krug sulla voce di Elisabeth Fraser: altre vite, altre prospettive di solitudine, dall’innegabile fascino borderline. La mia camicia appallottolata sul pavimento della stanza mi rammenta invece l’ineluttabilità angusta e proibita di quel pezzo di Paolo Conte, l’aria fanée, o blasée, sgualcita insomma, quella luce di pioggia e luce lattescente di conquista, attraverso la finestra di questo albergo così accogliente dove va a morir d’amore la gente. Sarà per questo che abbiamo bevuto vino italiano.
Catherine, ecco come si chiama. Ho gigioneggiato sulla Cuvée 60 Brut Nature di Casa Caterina: sul suo nome e sul mio anno di nascita. Ma sapevo che le sarebbe piaciuta quella nota sfacciatamente moelleuse sul primo respiro, caramella mou, brioche e pasticceria al limone striate di frutta esotica e nocciole. Più lontano una screziatura di gesso, forse cipria: no che non è cipria, è sorriso. Ricordo che l’ho guardata ridere davvero, attraverso la schiuma fitta, vaporosa e fuggevole del suo bicchiere, il vino scintillante d’oro tra bollicine avvertibili, ma dall’effetto suadente non tanto di seta quanto di lino macramè. Uova in cocotte, crema leggera di funghi di sottobosco e tartufo bianco di Alba: sempre un po’ di più, di tartufo e di complicità, in un annusarsi infinito, io, lei, lui, noi, voi. Sarà che 60 è un gran bel numero, sarà che sessanta sono i mesi in cui lo chardonnay si affina sdraiato sui lieviti prima della sboccatura, sarà l’assenza di dosaggio, ma il sorso di quella Cuvée era pieno e ricco, aggrappante e lungo, nel contrasto tra una dolcezza innata, lattea e una sottile vena d’amaro forse di sale, forse di acido come di buccia di limone. Dagli occhi di lei traspariva un abbandono languido, uno sbrilluccichio di complessità, di intimità e coraggio, che erano suoi, che erano anche di quello spumante così avvolgente. Non c’era bisogno di dessert, perché il cheescake l’avevamo nel bicchiere, ma soprattutto perché il desiderio ci ha scaraventati dentro un taxi ancora col vino sulle labbra e poi in una piazza, gli alberi, gli archi, un’insegna verde, Place des Vosges.
Attimi di gloria. E sono qui davanti a lei che dorme e vorrei dirle che questa è una di quelle volte, che non scapperò. Poso la testa sul suo ventre e respiro ancora di lei, respiro di me e del vino, in ordine sparso, dispersi. E perso, nella morbidezza dei suoi fianchi. Casa Caterina, casa e Catherine, Catherine è casa. Potrebbe, forse. Lei si sveglia e capisce male, o troppo bene: “Non, non, non, devo andare, doccia, doccia, vite, vite…”
Resto supino, gli occhi spalancati, fissi alla parete. La luce verde dell’insegna illumina quella carta da parati così orrenda. Mi accorgo che sembrano vomitevoli chicchi di caffè, e forse rido, o forse piango, esausto, mentre tutto intorno è solamente pioggia, pioggia e Francia.
Paolo Conte: Parigi (da Paris Milonga, 1981)