di Fabrizio Scarpato
Si può buttare. C’era scritto così, si può buttare: col pennarello, stampatello, su una scatola di Tod’s. A parte il fatto che lui una scatola di Tod’s non l’avrebbe buttata via manco morto, ad attirare la sua attenzione era stato il bordo seghettato di una fotografia, come quelle di una volta, che sporgeva da sotto il coperchio mal messo. Non si vergognò di raccogliere quella scatola tra carta e cartoni della raccolta differenziata: erano fotografie, e lui era un fotografo.
Un colore fantastico, quello Sciacchetrà aveva un colore fantastico. Seduto al tavolo di un’enoteca in una via di Monterosso, guardava il suo bicchiere cercando di immaginarne i riflessi sulla lente, l’angolazione di luce per racchiudere in una sola immagine l’ambra, il mogano, il ciliegio, l’oro, il tabacco, persino il rosso pompeiano che scaturivano da quel vino: Sciacchetrà 2009 di Luciano Capellini. Anche il vino giocava coi colori del tempo, raggruppandoli come un pugno di matite colorate, da scegliere o combinare ogni volta che si affacciava un ricordo, per lasciarsi sorprendere da nuove suggestioni. Nulla come un vino porta in sé passato e futuro, uno sciacchetrà apre orizzonti e abissi in entrambe le direzioni, quasi fosse una qualche forma d’arte.
In fondo lui aveva fatto la stessa cosa con le foto della scatola, togliendo la patina del tempo attraverso colpi casuali di colore, gocce d’nchiostro colorato, sbuffi come d’evidenziatore. La Flavia primi anni sessanta, l’elegante signora col vestito a fiori sotto il ginocchio e i capelli raccolti in un foulard, la mamma con la ragazzina a un tavolo di fòrmica mentre preparano dolci, non erano più immagini di un’automobile, di una donna, di una cucina, ma erano divenute immagini senza tempo, in cui ciascuno poteva rileggere qualcosa di sè o cogliere segnali misteriosi, inattesi, nei paraggi del senso delle cose.
Era inatteso anche l’abbinamento del suo sciacchetrà con piccoli panini alle noci e parsimoniosi pezzetti di un formaggio stagionato della Val di Vara che proprio sulle vinacce del passito s’era affinato per qualche tempo. Era inattesa la lettera di una donna che gli chiedeva appuntamento proprio lì, all’enoteca, davanti alla galleria dove erano in mostra le sue foto, quella sera stessa. La cosa lo innervosiva e cercava tra la gente un volto sconosciuto che potesse tranquillizzarlo. Allo stesso modo scandagliava il sistema limbico per trovare un qualcosa nei profumi del suo vino, quella nota che andava oltre la frutta essiccata e la scorza d’arancia, al di là della terra bagnata e del caramello, del tabacco, dei datteri. Poteva essere il croccante della fiera di San Giuseppe, e già ci sarebbe stato di che sdilinquirsi tra le mille sfumature di bruciato, ma tergiversò, ricacciando indietro quel tarlo per certi versi pleonastico.
Era bella ed elegante, senza un filo di trucco, apparentemente sicura di sé: le foto erano sue, della sua famiglia. Negli ultimi tempi aveva avuto necessità di fare ordine nella vita, liberarsi di cose. Le foto recenti le aveva bruciate con cattiveria, quelle più lontane le aveva abbandonate al loro destino, forse nella speranza che qualcuno le salvasse. E quel qualcuno era lui. Le mettevano malinconia, disse: la signora era sua nonna, la ragazza sua madre, e quando s’era ritrovata per mano quelle foto, le erano sembrate terribilmente senza storia, senza vita. Come lei in quel momento, qualche mese prima di ritrovarle in quella galleria di Monterosso.
Le offrì un bicchiere. Lo conosceva bene: da tempo trascorreva l’estate sulle Cinque Terre e amava Volastra, anche se da ultimo le ricordava un uomo terribilmente melenso. Lo sciacchetrà le piaceva tanto perché le metteva allegria. Non capiva nulla di vino, ma sentiva che in quel bicchiere c’era il senso prezioso del tempo, il senso della vita che scorre, la fiducia nel futuro, nel metter da parte qualcosa per i giorni di festa. “E’ un vino bello, di quella bellezza che rende migliori le persone e le cose che ci circondano”. O forse le piaceva solo perché gliene facevano bere un goccio col suo dolce preferito, le pesche al forno ripiene di cioccolato e amaretti, proprio quelle che sua madre imparava a fare in una delle fotografie che lui aveva riportato in vita.
Lui ebbe un soprassalto: cosa c’era di più dolce dell’amaritudine delle pesche al forno ripiene di cioccolato e amaretti? E di più succoso e confortevole? Quello splendido sciacchetrà testimoniava la bellezza del tempo che passa, la dolcezza del voltarsi indietro con nostalgia, cullati da quel sottile sentimento pervaso da una punta d’amarezza, ma non abbastanza da svuotare la vita del presente e tantomeno del futuro, talmente vivo da cancellare ogni malinconia. Lei annuì e fece un gesto come a voler sottolineare che era lì per dirgli in qualche modo le stesse cose. Poi bevve fino in fondo, con gusto, il suo bicchiere e disse: “Anch’io ho imparato da mia madre a fare le pesche al forno. Mi piacerebbe che le assaggiasse”. E si salutarono, quasi di fretta.
La guardò che si avviava verso monte, i capelli lunghi su un corpo agile e snello. Lei si fermò davanti a una vetrina e cercò vanamente di incrociare il suo sguardo. Lo vide ancora con gli occhi sullo sciacchetrà, come perso dietro i suoi pensieri. Poi anche lui si voltò per cercarla, ma fece in tempo a vedere solo un paio di Tod’s fucsia che si allontanavano tra la gente.
Cinque Terre Sciacchetrà 2009
Uve bosco, bruciapagliai e altri autoctoni
Acciaio e affinamento in bottiglia
Luciano Capellini – Volastra (Riomaggiore)