Un bicchiere per due / Cinque Terre Costa da’ Posa 2012, Cooperativa Agricoltura Cinque Terre

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Come un piano inclinato. Lentamente, ma inesorabilmente era rimasto intrappolato in una leggera disillusione, in un sottile e malcelato smarrimento. In fondo aveva solo passato un paio d’ore a visitare una mostra d’arte. Contava di lasciarsi trasportare dai colori, ed era finito in un mondo tutto bianco, in un nulla fatto di ombre e di occhi attoniti impressi su una vecchia polaroid. E poi inseguire la propria giovinezza attraverso le serigrafie di Andy Warhol non aveva prezzo: facce e gesti, musica e occhiali da sole, oggetti e idee attraverso vent’anni, i suoi vent’anni. Massacrati, senza speranza, fino ai titoli di coda, fino allo sganciamento violento della pellicola Super 8 in bianco e nero, fino ai resti di uomini, decapitati in quattro foto tessera senza soggetto.

Subito la prospettiva descritta da una parete di fiori (Flowers) relegava in un angolo la prima sensazione di allegria psichedelica per fare posto al raspo in gola del disagio, come se quei fiori emanassero profumi tossici, malati. E Marilyn, riprodotta all’infinito in un sorriso gelido e sclerotico, altri non era che il teschio della sala accanto (Skull), immerso nello stesso giallo, nello stesso rosa e nello stesso azzurro dell’ultima diva. Poco importava se il reperto osseo lasciasse indovinare un’ombra somigliante al profilo di un neonato: forse speranza, più probabilmente minacciosa rassegnazione. Una ferita dell’anima, cicatrice congenita, la parte oscura che si riflette su lame di coltelli (Knives) o sulla canna di una pistola (Gun) o sull’ipocrisia ridondante e assolutoria di una sedia elettrica policroma (Electric Chair). Alla fine di tutto, il sorriso enigmatico di Liz, le sue labbra porpora, una Monnalisa che forse aveva capito. “Colori differenti, fatti di lacrime”: Lou Reed s’era fatto passare il mondo addosso, che fosse sesso, droga o rock ‘n roll, oppure una bottiglia sinuosa di Coca Cola. E quando anche il tuo viso perde definizione sfaldandosi tra ombre evanescenti, quando anche la realtà fotografica diviene ripetizione ricucita da un filo a vista, a portata delle cesoie di un’inflessibile Atropo, non resta che affidarsi alla forza della natura, a un Vesuvio rutilante di acrilici, per scrivere la parola fine, magari sotto forma di un segmento del tracciato del terremoto del 1980. Grande, buio, nero.

“Tutto bene?” domandò lei. Lui non rispose e l’abbracciò. E restarono così per tutta la notte, fino al mattino, oltre il caffè e oltre il supermercato: perché lui s’era messo in testa di fare il Cappun Magru, e sapeva che avrebbe avuto bisogno di molta comprensione. Aprì una bottiglia di Cinque Terre, Costa da Posa 2012. Cappun Magru e Cinque Terre: tutto molto pop, pure troppo. Era in effetti un’impresa disperata: accumulò e mise sul fuoco fagiolini, cavolfiore e zucchine, aggiunse patate e carote, inumidì delle fette di pane, sbollentò delle code di gamberi di origine non meglio precisata, spadellò un trancio di coda di rospo e sbatacchiò in un pentolone un paio di chili di muscoli. Poi si mise a condire, frullare e affettare, aggiungendo uova, acciughe, capperi e olio. La costruzione del Cappun Magru aveva qualche affinità con la trascendenza.

Da ultimo si versò un bicchiere di vino che era di un bel giallo timido e senza ripensamenti, se non per qualche striatura verdognola, forse causata dal riflesso della salsa verde che stava preparando nella confusione del piccolo piano di lavoro. Allora si appoggiò con le spalle al muro, prendendosi un angolo di tempo tra quei precisi profumi di fiori gentili e pesca bianca, ancora soda, di morso, ma cedevole e dolce: pesca tabacchiera avrebbe detto. E si rallegrò di un sorso semplice e chiaro, equilibrio saldo tra un velo di morbidezza e una nota citrina, in un finale di sale e erbe aromatiche, abbastanza lungo da trarne un insperato sollievo. Ne versò mezzo bicchiere sui muscoli che si stavano aprendo, e anche loro sembrarono contenti.

Non potè fare a meno di pensare al suo stato d’animo della sera precedente e si domandò dei poteri terapeutici di un bicchiere di vino: anch’esso un prodotto, anch’esso ripetuto in un’infinità di bottiglie, nessuna uguale all’altra, eppure così magico e vitale, quasi intoccabile. Non sapeva darsi una risposta, e forse nemmeno gli interessava: ma mentre dai muscoli saliva il profumo del mare, pensò alla bellezza della Costa da Posa, ai terrazzamenti che disegnano la collina tra Volastra e Corniglia, ai trenini che proprio la Cooperativa custodisce, come una rete di comunicazione, un tessuto di solidarietà tra piccoli vignaioli, molto spesso anziani. Schegge di vita che si incontrano, anche grazie al vino. Il senso della vita che si specchia in segmenti di tempo, nelle stagioni, nei giorni, nelle piccole cose, nelle bottiglie e nei bicchieri, testimoniando una bellezza che ogni volta è frutto di un gesto ben eseguito, magari un sorso attento o piuttosto un lavoro fatto al meglio, percepito come bene comune. Difficile essere soli con un’etichetta di vino ben vissuto, quasi impossibile rispetto al senso di ipnotico vuoto che aveva provato di fronte a una serie di lattine di Campbell’s Soup. E si versò un altro bicchiere: era l’unico modo che aveva in quel momento di partecipare, per dire ci sono anch’io, per contribuire, seppur minimamente, alla costruzione di quella bellezza.

“Come stai?”. Lui la prese sotto braccio e l’accompagnò al tavolo. Il Cappun Magru era al limite dell’accettabile, indegnamente crollato nel piatto, disgregato alla prima forchettata. Si guardarono attraverso il bicchiere di Cinque Terre e risero divertiti, semplicemente soddisfatti del loro presente. La notte non era passata invano.

Cinque Terre Costa da’ Posa 2012

Bosco, albarola, vermentino

10.000 bottiglie prodotte


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