di Fabrizio Scarpato
Era arrivata al casale verso sera, sperando quasi di bucare una gomma tanta era la voglia di andarci. Passò in rassegna i cipressi sul viale sterrato: eran lì da secoli, immobili sentinelle, spelacchiati delatori. Si sentiva osservata e li mandò sonoramente a quel paese. Lui non era venuto ad accoglierla sulla porta. La domestica tutta trafelata l’aveva giustificato per via dell’immane compito al quale solennemente il signorino doveva attendere: la composizione dell’albero di Natale.
“Cheddici, mettiamo le palle rosse o quelle di cristallo dorate?”. “ Metti quelle che ti pare, anzi mettile tutt’e due, staranno benissimo”. “Amore mio se non ci fossi tu…”. Andava avanti così da qualche anno, da quando il padre era rimasto azzoppato proprio cadendo rovinosamente dalla scala nell’ultimo, e unico, eroico gesto della sua vita: sistemare il puntale con lo stemma di famiglia sul cucuzzolo dell’enorme albero fatto venire appositamente dal Trentino. Quella volta non ci riuscì e rovinò sul pavimento devastando il corredo di palle blu del milleottocento. Toccava all’erede, che già pregustava tremebondo un nuovo collaboratore: “Chissà che bello amore quando potrà aiutarmi il nostro bambino”. Ecco, anche se per un attimo aveva dimenticato che in primavera si sarebbero sposati, adesso guardava quella scala alta tre metri con inopinata e feroce speranza.
La domestica aveva preparato il piccione, che non le piaceva, ma il fatto che grondasse sangue dalle carni perfettamente cotte, in qualche modo la riconciliava col suo stato d’animo esacerbato e irrisolto. L’unica cosa che le interessava era quella bottiglia di Brunello di Sesta: una possibile bellezza in cui annegare, o una spalla calda e forte sui cui finalmente piangere le proprie lacrime.
“Il Brunello è sempre il Brunello” disse dopo aver sprofondato il principesco naso nel bicchiere. “Mi riconcilia con la cose belle: il rosso granato ancora rubino al cuore, la marasca e la ciliegia sotto spirito, le more e i chiodi di garofano, e poi questi tannini così educati, il calore del sorso tra note di prugne e sottobosco. Un che di confortevole, quasi familiare, prezioso come il nostro albero di Natale”. Lei non aveva ancora avuto un travaso di bile tale da annichilirle naso e palato, e anche in quel calice era riuscita a trovare motivi di divergenza, captandone gli aspetti più ruvidi e diretti, il sentore di cuoio e cioccolato, le note bruciate di pepe, la pienezza dell’ingresso e un allungo di liquirizia tra cortecce muschiose. Lo trovava virile e pimpante, in qualche modo rigenerante, per nulla accondiscendente. Le era piaciuto persino quel leggero squilibrio finale, con un appoggio eccessivo sulle note dolci, coi tannini slegati, ma pur sempre presenti e belli da rincorrere. E non sapeva più se pensava al vino o a un ideale di uomo.
“Cheddici ciccina, lo proponiamo a mamma per metterlo in carta al matrimonio?”. Sì, pensava al suo uomo. E non era quel cicisbeo che aveva di fronte. Doveva ringraziare quel Brunello: allora bevve un bel sorso di vino, ne assaporò la schiettezza, si rincuorò della sua forza sincera, lo schioccò bene sul palato e si alzò da tavola. “ Dico, caro il mio ciccino, che me ne vado. Dal mio uomo, l’uomo che amo, come mai potrei amare te e quel cazzo di albero di Natale”. E uscendo sferrò un calcio cieco allo scatolone in velluto stampato coi gigli di Firenze che s’era ritrovata tra i piedi. Ne sortì un rumore sinistro.
Ciccino rimase seduto cercando con espressione perplessa quelle fantomatiche tracce di virilità nel suo bicchiere. Poi con fare annoiato si avvicinò al suo albero di Natale, aprì lo scatolone coi gigli e d’acchito cadde svenuto. Il puntale con lo stemma di famiglia giaceva esanime, frantumato in mille pezzi.