Cosa significa davvero il caffé a Napoli e come si beve al bar

Pubblicato in: Minima gastronomica
Guglielmo Campajola, patròn della Caffetteria

Guglielmo Campajola, patròn della Caffetteria

di Luciano Pignataro

Il caffè a Napoli è un rito. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Come spesso accade nel linguaggio partenopeo, oggetti e stati fisici finiscono per assumere un significato immateriale. “Prendiamoci un caffè” è un modo di dire vediamoci, stiamo un po’ di tempo (quel che è necessario ma non troppo) insieme.
“Dobbiamo prenderci un caffè” significa invece che c’è qualcosa da discutere, da chiarire, da mettere a fuoco. “Ci vorrebbe un bel caffè” indica la necessità di staccare da qualcosa di impegnativo, concedersi una pausa dal lavoro.
Cominciamo dal pagamento: in genere deve pagare chi ha invitato, ovviamente prima sempre l’uomo e non la donna, la persona più anziana rispetto al più giovane che però qualche volta può “avere l’onore di offrire il caffè”, un onore che viene concesso ma che quando si chiede ha già il cento per cento di probabilità che si può.
Il linguaggio per il napoletano è fondamentale, è una sorta di radar, di sonda, un importante preliminare che precede ogni gesto. Per esempio difficilmente sentirete un no ad un vostra richiesta. Ma se la persona a cui vi siete rivolti non può o non vuole servirvi, impalpabilmente verrete respinti nel recinto del non possibile e il primo segnale è sempre il rinvio, il prendere tempo. “Poi si vede”. “Poi ne parliamo con calma”.
Ecco perché il caffè non è solo la tazzina, ma è un modo per relazionarsi molto importante, valido a tutte le ore del giorno.
Se siete invitati a prendere un caffè è buona educazione rispondere sempre sì, anche se non lo desiderate, perché arrivati davanti al bancone (di mattina) o seduti al tavolino del bar, la domanda diventerà finalmente precisa e l’immateriale finalmente si materializza: “Allora, cosa prendi?”.
Il caffè è anche il primo approccio per qualsiasi tipo di relazione, i primi momenti in cui ci si studia, si scambiano opinioni, ci si svela l’un l’altro. Quei cinque, dieci minuti fondamentali per il futuro del rapporto. Non a caso potrete sentirvi dire: “Io con quello manco un caffè mi prenderei”, oppure, “Mai più neanche un caffè”.

Già, dimenticavo la cosa più importante: a Napoli si dice café, la effe non raddoppia ma non è neanche singola, una cosa di mezzo insomma. E’ maschile come in italiano e l’articolo diventa esso stesso parte del sostantivo ‘o cafè”.
Il caffè parte con la giornata e finisce, per gli irriducibili, anche dopo cena. Il gusto napoletano predilige la “robusta” miscelata con “l’arabica”. Esistono, ovviamente, anche le mille varianti che si trovano nel resto del Paese: macchiato, schiumato, con qualche crema, sempre meno corretto con liquori o anice rispetto al passato, che rimane un gusto delle generazioni degli ottantenni.

Ma veniamo adesso alle istruzioni per l’uso. Come si prende il caffè a Napoli?
Anzitutto ognuno ha il suo barista preferito, anche se è giusto dire che ogni barista ha il suo cliente preferito. Indipendentemente dal numero di clienti che ha il bar, vi sentite immediatamente una persona e non un numero dopo la terza o quarta volta che andate allo stesso posto.
I baristi napoletani sono una enciclopedia antropologica vivente, vi guardano e, a seconda dell’ora, sanno cosa devono darvi. Per esempio io prendo il caffè macchiato a prima mattina, ma dopo pranzo mai. Se capita di entrare fuori da questi due range (che poi sono 7-10 e 14-15) il barista mi chiede come lo voglio, altrimenti va in automatico. Così è per tutti, non solo per me.
E’ noto che il caffè per essere buono deve avere le tre C, «Cazzo Comme Coce!». La tazza deve essere sempre calda, al limite della scottatura perché il caffè napoletano, come la pizza, ha pochi attimi di vita e il calo di temperatura lo rovina irrimediabilmente fino a farne qualcosa di imbevibile se freddo.
I bar sono sempre organizzati alla perfezione: c’è chi sta vicino alla macchina e chi al banco. Non capiterà mai che chi fa il caffè lascia cadere le gocce nella tazzina facendo un’altra cosa. Non assisterete mai a quelle scene penose da Stazione di Servizio, dove quei poveretti sottopagati devono fare scontrino, servire bibite e fare allo stesso tempo il caffè.
Così i caffè vengono “chiamati” da chi sta al banco o alla cassa a chi è vicino la macchina.
Purtroppo fuori Napoli questa differenza di ruoli (che è la stessa, per fare di nuovo il paragone, tra fornaio e pizzaiolo) è molto rara ed è questo il motivo per cui chi è abituato al rito napoletano fa bene a tenersi alla larga dal caffè quando è fuori città. Un po’ come il fumatore di Marlboro costretto ad adattarsi ad altre marche, lo fa per necessità ma avverte che in fondo, è come se non stesse fumando ma solo facendo il pieno di nicotina.

Un’altra grande differenza tra Napoli e il resto d’Italia è che vi servono sempre anche l’acqua, in genere gassata. Anche questo è automatico, scontato, non dovete chiederla mai, anche se siete nel bar più affollato di Napoli all’ora di punta.
L’acqua ha due funzioni e va bevuta prima del caffè: la prima è quella di gusto, ripulisce la bocca e la prepara. La seconda è di natura salutare, perché diluire il caffè è sempre una buona abitudine per tutto l’apparato digerente.
Anche questa consuetudine è molto difficile da trovare fuori Napoli e in alcune zone del Nord fanno addirittura pagare il mezzo bicchiere.
E se per puro caso non vi danno l’acqua, farete bene a chiederla perché è un modo per mettervi “da sopra”, ossia rimarcare al barista che non ha fatto qualcosa che avrebbe dovuto fare.

Se dopo aver bevuto il caffè farete i complimenti, vi sarete conquistati per sempre la benevolenza del barista che si ricorderà di voi la volta successiva e ci metterà tutto l’impegno a servirvi bene perché ognuno è molto orgoglioso della propria tazzina.
Per decenni uno dei miei tormentoni preferiti è stato di aggiungere, dopo aver detto che il caffè era buono «ma per caso sei andato di fronte a vedere come si fa?». Oppure, dopo un periodo di assenza: «Fammi subito il caffè, mi devo acconciare (aggiustare) la bocca», per dire che nessuno fa il caffè così buono come il mio barista di riferimento.
L’ultimo capitolo riguarda quando mangiare la brioche o il cornetto (che a Napoli sono fatti a volte con la stessa pasta della brioche). In questo caso il barista napoletano afferma la sua superiorità mondiale quando non vi fa il caffè dopo che è stato chiamato, ma è capace di aspettare sempre che finiate di mangiare. Indipendentemente dal numero dei clienti da servire. Anche questa è una usanza tipicamente cittadina e per non perdere la sua stima ricordatevi di non chiedere mai la vostra tazzina prima di aver finito di mangiare. A meno che non abbiate preso un cappuccino e vi piace l’inzuppo, ma in questo caso farete bene a specificare perché lo fate. Il motivo dell’attesa è semplice: ancora una volta, evitare che si freddi.
E’ buona abitudine, infine, lasciare sempre una moneta sul banco se al lavoro ci sono dei dipendenti, mentre se è lo stesso proprietario al lavoro ovviamente la mancia è superflua.

Ci sarebbe poi il capitolo del caffè a casa, magari con la vecchia caffettiera napoletana, la cuccuma ormai andata in disuso e ripresa di ricente dalla Caffetteria. Ma su questo ha già detto tutto il grande Edoardo e io non mi sogno nemmeno di imitarlo.
Ecco, spero che questo memorandum sia utile per chi viene in città. Nella speranza che queste abitudini, queste consuetudini, siano ben presto estese ovunque, perché il caffè non è solo una tazzina, ma una grande civiltà gastronomica.


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