di Stefano Tesi
Lo ammetto, sono un po’ anarchico. Tanti anni fa me lo disse anche Veronelli e la cosa mi lusingò.
Sono anarchico anche quando assaggio il vino, perchè non sempre mi piace farlo quando devo o si dovrebbe, bensì quando mi va o me ne salta lo sghiribizzo.
Così mi capita di accantonare bottiglie che dovrei stappare subito, oppure di berle con abbinamenti poco ortodossi, oppure di fregarmene delle scadenze e fare di testa mia. E’ un modo per mettere alla prova non solo il vino, ma soprattutto me stesso. E per tenere viva la voglia di assaggiare godendo di ciò che si beve, anzichè intristirsi nella serialità, come talvolta fatalmente accade a chi fa questo mestiere.
Ecco quindi tre assaggi che mi hanno intrigato, sebbene fossero fuori passo.
Ennio, Sagrantino di Montefalco docg 2015, Bocale
Nella scorsa primavera il Rosso (70% Sangiovese, 15% Sagrantino, 10% Merlot e 5% Colorino) mi era piaciuto assai, ma per questo Ennio, vino di punta dell’azienda umbra, avevo preferito attendere. Un po’ perchè volevo aprirlo nella stagione migliore, un po’ perchè ero prevenuto verso una tipologia di vino che – cosa peraltro risaputa – non è troppo nelle mie corde.
E invece questo 100% Sagrantino, affinato per due anni in botti di legno e per altrettanti in vetro, mi ha piacevolmente sorpreso, complice senza dubbio un azzeccato abbinamento gastronomico (capretto arrosto) e forse anche una temperatura di servizio volutamente inferiore alla norma.
Ne è uscita una bevuta godibile e meno prevedibile di quanto pensassimo: un bel colore rubino, carico ma non troppo, un naso avvolgente con spiccato sentore di liquirizia, screziatura di fiori appassiti, una presenza del legno smorzata quanto basta a non risultare fastidiosa e tale da renderlo vivo, quasi agile all’olfatto. Allo stesso modo, in bocca si è rivelato un vino di elegante vigore, piacevole ed equilibrato, con una bella lunghezza e una solidità non troppo muscolare. Prodotto vegan. In azienda costa 50 euro.
Poiana Sangiovese 2019, Toscana IGt, Il Calamaio
Non per vezzo ma per abitudine ho disatteso quasi tutte le raccomandazioni del produttore Samuele Bianchi, che conduce questa piccola azienda alle porte di Lucca e che nel maggio scorso, mandandomi i campioni, ambedue bio, mi aveva suggerito di stappare il già pronto 2017 ma ancor prima il campione del 2019, privo di solforosa e preso direttamente dalla botte da 10 quintali, dove aveva appena cominciato a maturare.
Io invece ho lasciato ambedue al fresco della mia cantina per sei mesi e giorni fa ho messo mano al più giovane.
Sorpresona. Un colore da Sangiovese come ci si aspetta, ma soprattutto un naso vivacissimo, inebriante, croccante quasi, con i classici sentori di viola e ciliegia, tutti freschissimi, direi spumeggianti, con effetti di gradevolezza assoluta. Non da meno al palato, dove le note olfattive si rispecchiano appieno: agilissimo, pieno di vigore ed eppure senza spigoli nè stonature, che si lascia cullare in bocca e non delude nemmeno per sapidità e lunghezza. In un sol colpo fatte secche la bottiglia e la bistecca.
Zizzolo 2018, Bolgheri Rosso doc, Fornacelle
Sulle prime il nome mi ha spiazzato. Dalle mie parti, cioè nel senese, esiste solo al femminile e sta a indicare certe brezze gelide che d’inverno spirano tra i vicoli. Lo Zizzolo, che apprendo a Bogheri significare giuggiolo, è invece l’opposto: caldo, morbido, gentile, avvolgente come una sciarpa di cachemire avvolta attorno al collo.
Dal rubino pieno del bicchiere salgono infatti note di macchia mediterranea, di resina e di un piacevole tepore, con accenni speziati e vagamente dolciastri, frutti maturi compattati dal legno. In bocca è altrettanto morbido, armonico e vellutato, ma non ruffiano. D’istinto l’ho immaginato con zuppe di animali bassa corte o di selvaggina, o magari con un agnello parimenti sdolcinato. Alla fine, però, l’ho brutalmente sfidato su un inzimino di seppie e non ne è uscito affatto male. Costa sui 15 euro.
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