Trattoria Trippa a Milano
Via Giorgio Vasari, 1,
Telefono: 327 668 7908
Aperto la sera, domenica chiuso
di Giulia Gavagnin
L’ha chiamata “Trippa” ma avrebbe potuto chiamarla “Cuore”. Perché era stanco di inutili orpelli, di allegorie gastronomiche che non sono nulla, non rappresentano nulla. Diego Rossi è veneto di San Giovanni Lupatoto, sguardo affilato, muscoli e tatuaggi, concreto e passionale.
“Trippa” è la sua trattoria, che dal 2016 fa ha cambiato volto alla ristorazione milanese, diventando un caso nazionale che ormai ha travalicato i confini dello stivale. Pareti gialle, oggetti di modernariato, arredamento essenziale, pare la bocciofila di una periferia urbana qualsiasi. Dopo pochi mesi dall’apertura, le liste d’attesa si sono fatte sempre più consistenti, le prenotazioni online aprono a cadenza mensile e vanno esaurite in poche ore.
Il bancone ha tre posti, è preso d’assalto dai curiosi e dai più appassionati ghiottoni, che diventano parte dell’energia inarrestabile che scaturisce dai giovani della brigata, tutti in maglietta bianca e logo del ristorante, che all’unisono assemblano, mescolano, compongono piatti intensi ed istantanei, forti ed essenziali, perfetti perché imperfetti, come sarebbe piaciuto al più grande chef degli anni ’90, Fulvio Pierangelini, che raccomanda ai giovani di essere imperfetti per non cadere in una sterilità che impoverisce la vita.
Trippa a Milano è stato un successo immediato perché è come se la cucina di Diego Rossi avesse attraversato lo spirito ancestrale del popolo, per mezzo della tavola lo avesse riportato alle origini, all’essenza, come se quei simboli della sua cucina, testa, cuore e fegato, rappresentassero la metafora dell’essere umano stesso nei suoi elementi fondamentale. La cucina di Rossi è pura tradizione italiana e rurale, pesca a piene mani tra il Piemonte della sua formazione, il Veneto delle origini, i mattatoi laziali dei suoi viaggi, ma ha un tocco originale che è soltanto suo e che è difficilmente riproducibile, altrimenti di Trippe ce ne sarebbero a decine.
Invece no, ce n’è’ soltanto una, che continua a servire inimitabili vitelli tonnati rosa con la sua morbidissima salsa ottenuta col sifone, un’asciutta e profumata trippa fritta, il midollo alla brace, tartare di pecora, insalata di cardi, nervetti e bergamotto, terrine di germano reale e radicchio di Verona, spiedini di cuori e centinaia di altre variazioni sull’animale che Diego Rossi estrae a colpi di classe, inventiva e mannaia. Oggi il suo genio è condensato in un libro, “Finché c’è Trippa…” scritto e pensato a quattro mani con Barbara Giglioli con i suggerimenti musicali di Tommaso Paradiso e la prefazione di due maestri, Riccardo Camanini e Paolo Lopriore.
È un libro di piatti forti, immagini e musica sul “quinto quarto”, certo, ma è soprattutto un manifesto della Nuova Cucina Ancestrale, quella che spedisce in soffitta un ventennio di pinzette, fiorellini, orpelli stellati per riportare al centro testa, cuore e fegato, punti cardinali dell’essenza emozionale attraverso un’attitudine rock, quasi punk, che è tipica delle epoche di rivoluzione.
È un percorso di memoria e di lentezza : “solo chi ci è nato ne conosce il valore. Solo chi ha passato interi pomeriggi mano nella mano con il nonno che racconta storie belle può comprendere. Diego, in ogni suo piatto, mette un po’ di quelle emozioni provate quando era ancora solo un “boceta” dai calzoncini corti. Lui che cresce nella campagna veronese e qui, tra il pollaio e l’orto, impara l’importanza del silenzio e della pazienza. Perché nessuno cosa bella accade velocemente, ogni sono va atteso e desiderato. Così ogni anno, con l’arrivo dei primi freddi, il piccolo Diego non vedeva l’ora che arrivasse il tempo della macellazione…..”.
Da lì, una storia d’amore, a scoprire la gestualità degli adulti, la ritualità dell’uccisione del porco, le donne che preparano il budello per i salami, l’odore forte delle stalle, del sangue, della festa rurale, fino a diventare il moderno cantore dell’ancestrale tra i fornelli della sua trattoria. Del maiale non si butta via nulla, quindi il libro si apre con l’orecchio di maiale alla brace con salsa aioli e rape sottaceto, nell’orecchio indulge compiaciuta l’insalata con cipolla di Tropea agrodolce, tarassaco e ciccioli, non risparmia le sue cotiche soffiate, senza farsi mancare i piedini in zuppa,con ditalini, ceci, baccalà e pecorino, che spolvera anche una grandguignolesca polenta e cipollata di sangue che bagna il raviolo ripieno di animelle.
Un turbinio di organi, tessuti, liquidi, liberi nel fluire attraverso le mani di Diego, icasticamente ritratto nel volume intento a maneggiare una retina di maiale sullo sfondo di calendari di pin-up, come si conviene a chi della vita vuole prendere sempre il meglio. Nel bue “ozioso, placido e sereno” c’è maggiore riflessione, c’è il tocco violentemente inventivo che si stempera: paté di milza al bergamotto, una classica lingua al verde a rinverdire i trascorsi piemontesi di Rossi, che non rinuncia mai alla carne di Martini, tra le migliori d’Italia. Sono le montagne russe di un compendio enciclopedico che fluttua tra le carezze del ragù di cortile della nonna e gli schiaffi dei testicoli di Gallo, tra gli archetipi della cucina regionale di trippe, cibrei, finanziere e le stranezze delle “frattaglie erotiche” con un “membro in insalata” che farà storcere il naso agli accademici della cucina più ortodossi. Del resto, in ogni rivoluzione scorre del sangue, e però, siccome queste culinarie sono rivoluzioni gentili, al massimo qui si sarà sparso un poco di sanguinaccio di troppo, con gioia e curiosità dei sempre più numerosi avventori di Trippa e dei fan di questo ragazzo che dal Veneto ha conquistato l’Italia.
Racconto del 21 novembre 2018
Trattoria Trippa a Milano
Via Giorgio Vasari, 1,
Telefono: 327 668 7908
Aperto la sera, domenica chiuso
di Luciano Pignataro
Credo che nessuno in Italia più di Eugenio Signoroni, curatore della fortunata Guida Osterie Slow Food, l’unica italiana che nelle vendite di mercato butta fiato sul collo alla Michelin, abbia titolo a parlare di questa materia. Non è un Ipse dixit, ma il parere di chi ci lavora da anni e tiene monitorato il settore anche grazie alle radici che l’associazione ha ovunque come nessuno. In un recente articolo su Piattoforte chiude così: L’osteria contemporanea non ha bisogno del neobistrot o del ristorante per esistere e definire una sua identità. Anzi, a ben guardare, forse oggi è il ristorante che ha bisogno di lei.
Insomma far risalire la trattoria moderna all’onda lunga della bistronomie francese, termine coniato dal critico Sébastien Demorand e che vede nel locale di Yves Camdeborde il punto di nascita all’inizio degli anni ’90, significa sostenere che l’Homo Sapiens è una linea diretta evolutiva dell’ Uomo di Neanderthal.
Eh già, perche le radici dell’osteria moderna italiana non possono che essere invece in Italia, il cui scheletro ristorativo pubblico è costituito da osterie e trattorie. Ossia da una ristorazione di servizio per chi è costretto a mangiare fuori che poi in molti casi è evoluto nel ristorante sino a toccare vette altissime. Ancora oggi le cose stanno così visto che nove Tre Stellati su dieci sono a gestione o di proprietà familiare.
Già, la famiglia, forse bisogna proprio partire da qui per capire lo spartiacque tra antico e moderno. Nel senso che la trattoria resta, ma è la famiglia che si sta progressivamente dissolvendo in Italia e sempre più spesso le trattorie sono create da ragazzi, giovani cuochi o giovani imprenditori, che non hanno una tradizione familiare alle spalle nel campo ristorativo.
Questa è la cornice giusta, antropologica, entro la quale ragionare e iniziare a dare delle definizioni.
La trattoria sta cambiando pelle perché sempre più spesso non è più solo una ristorazione di servizio (anche se al Sud è in gran parte ancora così) ma di puro piacere.
In secondo luogo perché sempre più i ragazzi che cucinano hanno maggiore padronanza delle tecniche.
In terzo luogo è moderna perché c’è sempre più consapevolezza sulle materie prime da usare e sulla necessità di tenere alta la qualità dei prodotti.
Il successo rinnovato delle trattorie dipende sostanzialmente da due fattori: la crisi economica che ha visto il reddito pro capite in Italia passare da 38mila dollari nel 2008 ai 30mila nel 2017 e il fatto che il ruolo sociale dei sessi è definitivamente cambiato e che per le giovani generazioni i piatti tradizionali di una volta sono la grande novità. E siccome sono buoni, li cercano!
Perché, diciamocela tutta francamente, la cucina d’autore ha in Italia altissime vette, ma i piatti creativi entrati nell’immaginario collettivo al pari dei classici tradizionali regionali, si contano forse sulla punta delle dita di due mani.
Sbagliata, completamente errata e tipica di chi presuntuosamente fa iniziare la storia con la propria data di nascita, l’analisi secondo cui la trattoria italiana era in decadimento. Al contrario, osserva Signoroni nel suo articolo, è una settore che si è sempre mantenuto tonico anche negli anni più bui della crisi economica. Aggiungiamo che solo adesso sta diventando un segmento gastronomico messo in discussione dalla diffusione delle pizzerie e delle paninoteche o dai locali con più offerta, dove servizio e piacere si coniugano senza discontinuità con prezzi più bassi e qualità sempre più alta.
Piuttosto il tema è un altro: dopo l’ondata televisiva di Masterchef e degli spadellatori in tv è difficile trovare giovani che approcciano il mestiere per quello che dovrebbe essere, far felice il cliente con buoni piatti. Assistiamo purtroppo a decine di tavole caricaturali che vivono di ristoranti vuoti e chef -proprietari impegnati a girare come trottole in pranzi per grandi sponsor per far quadrare i conti.
E’ indubitabile che negli ultimi dieci anni almeno si è pompato un fenomeno che non sempre è autosufficiente economicamente.
Detto questo, ecco spiegato il successo di Santo Palato a Roma e, prima ancora, di Trippa a Milano. Nel locale fondato tre anni fa da Pietro Caroli e dal socio cuoco Diego Rossi non si sta bene, di più: si sta alla grande. A cominciare dal rapporto qualità/prezzo difficile da trovare in questa città. E’ moderna perché, appunto è un posto di piacere, non a caso sta chiuso a pranzo e aperto solo la sera. E’ moderna per le tecniche di cottura, ed è precisa nei sapori dove la materia prima protagonista non ha bisogno di aggiunte ma è essenziale, coraggiosa nella proposizione di interiora, circondata da una carta dei vini aggiornata, curiosa e da un servizio sempre sorridente. E’ moderna perchè è attenta alle tematiche ambientali.
Prenotare non è facile, almeno in questo momento. Dovete rassegnarvi a lunghe attese come abbiamo fatto noi ma ne vale la pena.
Spenderete sui 40 euro, vini esclusi, come in nel nostro percorso che vedete in foto ma che non necessariamente troverete uguale perché uno dei segreti di questo locale è la spesa quotidiana, che varia ovviamente con la disponibilità dei fornitori e la stagionalità.
Motivo per tornarci più volte.
Alè!
Trattoria Trippa a Milano
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