di Fabrizio Scarpato
Si entra nella Val Graveglia dopo un ponte che sembra di quelli gonfiabili che segnano l’ultimo chilometro al Giro d’ Italia: in realtà non è di gomma, ma certamente son gli ultimi venti metri di aria e di luce riflessa dal mare, prima di entrare di sghimbescio nella spaccatura grigia e tagliente della valle. Annibale non è venuto, problemi con gli elefanti: ma non mi perdo, anche se oltrepasso il paese dell’appuntamento di qualche chilometro, non abbastanza per inerpicarmi sui tornanti sinuosi del Passo della Biscia, va senza dire. Allora sì sarebbero serviti gli elefanti: perché di là c’è Varese Ligure e la Valle del biologico, la Val di Vara spezzina, che poi, se ti raccomandi l’anima steso sui curvoni delle Cento Croci, arrivi in Emilia, tra funghi e gnocchi fritti. Piacerebbero ad Annibale, simili sconfinamenti. Terre attraverso i monti, povere, che hanno in comune la farina e l’acqua per pastellare gnocchi e tigelle, crescentine e testaroli, panigacci e sgabei, testaieu e castagnaccio tra la Cisa, il Rastrello e le Cento Croci.
Piove e il grigio verde metallizzato della valle si riempie di nomi cartavetrati come Breccanecca, Zerli e Antigastro, o gentilmente fiabeschi come Conscenti, Frisolino, Ne, Osti di San Michele. Non credo sia un caso. Piove e il torrente ingrossato schiuma fanghiglia giallo senape. Colori freddi: sarà per questo che sembra di cambiare stagione salendo alla Trattoria dei Mosto, tra tovaglie celesti e bicchieri blu, come il mare. Qui il mare non arriva, non ce ne può fregar di meno del mare: spessi sottopiatti di ardesia, canna di fucile, ce lo ricordano immediatamente, tutto, per fortuna, senza reperti falsamente bucolici alle pareti. Luce.
Arrivo ovviamente in ritardo, non tanto rispetto agli altri commensali, quanto rispetto alle tre bocce di Champagne che mi guardano già sgabbiate e sgocciolate: colpo al cuore se si chiamano Salon, Dom Perignon e Collard millesimati una ventina d’anni fa, degorgiati non so quando. Tre dita di Collard mi rinfrancano dalla fatica del viaggio (sic?): netti i funghi e forse il miele. Perplimo. Maialata non è ciò che penso di fronte alle bottiglie esangui, ma è un titolo, pretesto per una riunione mangereccia viaggiando a ritroso nel Levante ligure, per me che sto con un piede in Liguria e tutto il resto sbilanciato in Toscana. Sconfinando e maialando (direbbe Spigaroli, ma lui esagera anche ocando, bollendo, lumacando, ranando, starnazzando…)
In effetti il piatto di affettati era grandioso, scioglievole e profumato, nelle variazioni della testa in cassetta, salami freschi e pancetta molto prossima al miglior lardo per sinuosa morbidezza. Venivano da oltre Cisa i cappellacci al sugo di carne, ripieni di zucca, in un bel contrasto dolce e ruvido, tra pasta spessa, farcitura e condimento. Echi della Bassa che si manifestavano prepotenti con una monumentale arista di maiale, medievale per grandezza, valligiana per speziatura e condimenti: grasso come panna montata e carne soda e cedevole al coltello, esito di cottura doppia o tripla estenuante, lunghissima. Quasi un dolce, in effetti, per presenza, gusto e golosità. Triplo carpiato con avvitamento coefficiente 3.2 eseguito magistralmente. Roba viva, studiata, cercata per te, mai banale, tantomeno museale, tradizionalmente contemporanea: Annibale s’è perso qualcheccosa, gli elefanti meno.
Dovrei provare a parlare del vino, ma mi resta qui, nella strozza: perché ricordo poco di quei sette o otto Amarone e Cabernet Franc, a partire da un giovane e pimpante virgulto datato duemilacinque, fino a un’ austera riserva ottantotto che ha menato sganassoni al resto della compagnia. Spesso ci facciamo del male, e ne facciamo a seducenti bottiglie, bellissime, che, i soliti stronzi, tradiamo cinque minuti dopo con un’altra, altrettanto accattivante. Chissenefrega, ma almeno conosciamoci, non basta il nome, per quanto possano chiamarsi Monte Dall’Ora, Dal Forno o Quintarelli; e se poi, sotto il belletto, avvertiamo un qualche compromesso con l’età, quei profumi un po’ invadenti tra cioccolato e smalto, beh, rispettiamole, non mettiamole subito da parte, sicuramente hanno qualcosa da raccontare, pur nel rischio di una conversazione sottilmente stucchevole e appiccicosa tra cesti di more mature. Se gliene dessimo il tempo, però. Non mi piace esser sgarbato, non voglio più mancare di rispetto alle bottiglie, al vino, alle persone che l’hanno fatto e pensato: i vini li vorrei ascoltare, uno a uno, e non dimenticarli in un carnevale di pur splendidi cristalli.
Ciò non toglie che quella Riserva otto-otto, che ha avuto la sorte di incontrare paste forti di formaggi stagionati e la spumosa, dorata anima di una caciocavalllo sardo, beh, quella la ricordo bene. Struggente, come il loro matrimonio: quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare. Ci si commuove, anche tra cuori tormentati da estratti paurosi. Per questo ho distintamente sentito il pianto di un Montrachet, finalmente bianco ma disgraziatamente troppo pesante, sorpassato di slancio sulla tavola da un moscato d’Asti rifermentato in bottiglia che ha fatto piazza pulita dei quarantenni manco fosse Manassero all’Agusta Master. Freschezza e leggerezza: dello spumante (eccheccavolo sì, uno splendido “spumante”) e dei dolci che hanno invaso la tavola blu, nel blu dipinto di blu. Volare … Pandolci genovesi con canditi, con uvetta, con noci e cioccolato, sgonfiotti ripieni (marmellata, fichi, cioccolato?), crostate, bon bon al cacao in un giulebbe fanciullesco e territoriale da chiamare tutti gli amici, zii e parenti a far festa. E festa è stata.
La sera cala tra Recioto questa volta non scapà, grappe (vade retro!) e una Baladin Noel, tanto per caramellare sogni esotici e aeroporti pornografici. Non è proprio così, ma tra due giorni è Natale, non va bene non va male, buonanotte, torna presto e così sia. Saluti, baci e abbracci, frettolosi, se il sospetto di una Berkel col push-up si fa strada proprio lì in un cantuccio, della piazza e della tua curiosità. All’angolo come pugili suonati, assetati come cammelli, si riprende la danza a suon di bollicine, adorate come madonne pellegrine, e esile prosciutto a fettine veline: la Berkel taglia bene, ma è falsa, come il push-up.
Non so perché, ma mi sbarluccica il sospetto che in queste valli, qualcuno a caso, questa volta vestito sui toni del geranio, abbia portato tradizioni piedemontane: un sentimento di profondo rispetto culturale mi gonfia il cuore al pensiero di partecipare a una “merenda sinoira” trapiantata tra gole forse di ardesia e magnesio. Un invito, una luce negli occhi, il profumo distante di cappelletti in brodo e il richiamo della voce languida di una Sirena dall’accento vellutatamente francese: Madame, on va recomencer. Si ricomincia. Io finisco.
Con qualche rimpianto riprendo la strada verso il mare, passo sopra il ponte dell’ultimo chilometro e mi infilo nella notte, lasciando dietro di me nomi da fiaba e due persone da ringraziare, Catia e Franco, che oggi mi hanno accolto come a casa loro, anzi proprio a casa loro. E non li avevo mai visti prima.
E tu scrivimi, scrivimi, se ti viene la voglia
e raccontami quello che fai
se cammini nel mattino e ti addormenti di sera
e se dormi, che dormi e che sogni che fai…
Trattoria dei Mosto, Conscenti di Ne (GE)
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