Corso Vittorio Emanuele 514
Tel.081.564 26 23
Chiusura: lunedì
Aperto a pranzo e cena
Carte di credito, bancomat, buoni pasto: si
Ferie:10 giorni in agosto
Il Corso Vittorio Emanuele, nasce tra il 1853 e il 1860 col nome di Corso Maria Teresa e la sua realizzazione si deve alla volontà di Ferdinando II che ne commissionò il progetto all’architetto ed urbanista Errico Alvino, con l’intento di poter avere un asse viario che mettesse in diretto collegamento due parti della città poste agli antipodi e, soprattutto, la città bassa col quartiere del Vomero. La strada si snoda per 4.5 chilometri, dall’attuale piazza Mazzini sino a via Piedigrotta, lambendo la collina del Vomero con un andamento sinuoso e per larghi tratti panoramico.
L’apertura di questa strada, in un’epoca in cui le colline erano ancora territori incontaminati, coltivati ad orti e vigne, mirava a dotare Napoli di una sorta di primitiva “tangenziale”, che agevolasse gli spostamenti da una parte all’altra della città. Eleganti edifici, soprattutto sul versante occidentale, belle affacciate sul golfo, gli attraversamenti delle antiche salite per il Vomero e la presenza del singolare Castello Aselmeyer sono le principali caratteristiche del corso Vittorio Emanuele. Numerosi anche i collegamenti con il trasporto su ferro: lungo la strada si trovano tre stazioni intermedie delle funicolari ed una fermata della ferrovia Cumana.
Il Castello Aselmeyer, o più correttamente, Castello Grifeo dei principi di Partanna, è una residenza ubicata in Corso Vittorio Emanuele, eretta dall’architetto anglo-napoletano Lamont Young nel 1902 come dimora personale e due anni dopo venduto al banchiere Carlo Aselmeyer.
Napoli è cresciuta sul tufo giallo, sulla pozzolana e sulle rocce generate dalle antiche eruzioni del vulcanismo dei Campi Flegrei, ha quindi sempre sfruttato la pietra dei suoi colli e del fondo delle sue valli per crescere verso l’alto, avendo perciò bisogno di essere collegata da sistemi di scale, calate, salite e discese. A pochi passi da Piazza Mazzini, scendendo per meno di un chilometro per Via Salvator Rosa e svoltando a destra in Via Francesco Saverio Correra, vi troverete nel mezzo di quella strada che tutti i napoletani conoscono con il nome storico di “Cavone”,
Si tratta di una strada poco più larga di un vicolo che da Piazza Mazzini conduce dopo circa 600 mt a Piazza Dante. E’ una discesa sommersa tra 80 palazzi e 200 “bassi”, più di 500 famiglie e 2000 residenti con storie di vita della Napoli di una volta che risalgono all’immediato dopoguerra e che ho raccolto per testimonianza diretta: “la parte verso piazza Dante era ricca di botteghe di frutta e ortaggi e piccole salumerie. Sulla sinistra c’era una piccola rivendita con la bancarella esposta sul vicolo dove una bellissima e formosa signora metteva in mostra svariate ceste di uova il cui prezzo variava a seconda della grandezza e freschezza. ( chissà se un certo allevatore in Versilia fa lo stesso…) Sempre sulla sinistra, poco più avanti, c’era la scuola elementare, al mattino si vedevano i bambini con i loro grembiulini candidi e fiocchi azzurri correre fino all’ingresso, le mamme facevano a gara per chi avesse il grembiulino più pulito e meglio stirato, al ritorno poi, quante macchie (la penna biro ancora non era stata inventata). Molti abitanti del “Cavone” ospitavano studenti universitari e si poteva osservarli intenti a studiare sui terrazzini o sui balconcini al tiepido sole invernale. Nel pomeriggio poi, i bambini giocavano per strada, il vicolo rappresentava il prolungamento naturale del basso, era ovvio perciò che molte attività del quotidiano si svolgessero all’aperto, come ad esempio pulire la verdura, cucire, stendere il bucato. Durante lo svolgimento di queste incombenze, il chiacchiericcio era costante: il buongiorno e la buonasera erano la regola se passava un estraneo al vicolo. Poi c’erano le conversazioni da balcone a balcone e il mitico “panaro” (paniere) che trasportava con un sistema di carrucola oggetti di ogni necessità da balcone a balcone”. Il “Cavone”, in effetti, altro non era che un impluvio, il letto collinare dell’antico Sebeto, nel quale le acque avevano scavato un canyon nel banco tufaceo mettendo il tufo a vista e favorendo un’intensa estrazione. Scomparso il Sebeto, il suo letto diventò una strada lungo la quale s’insediarono numerosi “fondaci”, nei quali i mercanti depositavano le mercanzie che esponevano in Piazza Mercatello, all’epoca fuori dalle mura, oggi Piazza Dante. Con l’espandersi della città anche il Cavone fu urbanizzato e persino i suoi fondaci, dove ancora oggi su alcune lapidi si legge: “basso non utilizzabile come abitazione”, diventarono abitazioni. “Il Cavone era il mercato del quartiere, tra Piazza Dante e il Museo c’era una drogheria che vendeva di tutto: sapone di piazza di color marrone gommoso conservato nei barili, legumi, dolciumi per bambini, pasta sfusa tenuta nei cassetti con la carta blu dei maccheroni, conserve di pomodoro a peso. Queste attività, come “‘o ferraro” (il fabbro), “‘o baccalaiuolo”, e “l’acquafrescaio” che vendeva limonate e acqua ferrata al Museo”
oggi non ci sono più. Rimangono gli antichi palazzi nobiliari abitati dalle famiglie borghesi e i “bassi” del popolo in una commistione normale per quei tempi, dove, sotto le bombe non c’èra differenza, il ricovero era uno solo. Lungo il Cavone resta la cappella Ulloa, una delle chiese monumentali di Napoli, sita nel centro storico della città, in piazzetta Cappelluccia.
Alcuni dei palazzi nobiliari sono stati restaurati e riconvertiti in originali hotel tra cui l’Hotel Correra 241, il primo Art Hotel di Napoli, addossato ad un banco di tufo da cui parte un antico acquedotto greco-romano. Risalendo verso il Corso, proprio all’angolo, prima della discesa di Salvator Rosa e del Cavone, in direzione Piazza Mazzini, al n. 514 c’è l’Osteria Toto’, Eduardo…e pasta e fagioli. Una volta, mi racconta il proprietario Mario Bianchini, napoletano con lontane origini toscane, questa posizione era ideale, grazie alle scale di Napoli, antichi percorsi pedonali che congiungono le colline con il centro e la costa. Il Corso Vittorio Emanuele con le sue calate, discese, salite e pedamentine ne è una salda testimonianza. Il Petraio è una zona di Napoli
che prende il nome dell’omonimo borgo (Salita del Petraio, Gradini del Petraio, Vico del Petraio, Discesa del Petraio ) sulla collina del Vomero. Il termine Petraio non deriva dal nome di una cava di pietre, ma da un luogo dove le piogge alluvionali depositano i ciottoli; il tracciato della salita ricalca quello di uno dei tanti alvei alluvionali del Vomero, dove successivamente venne realizzato un borgo che con il passare degli anni è diventato un luogo per famiglie benestanti. Oggi nel quartiere sono presenti architetture di Liberty napoletano realizzate nei primi anni del XX secolo e successivamente, durante la speculazione, sono stati costruiti numerosi palazzi in calcestruzzo armato che l’hanno resa una zona con alta densità residenziale.
La Pedamentina di San Martino parte dall’omonimo largo sulla sommità del Vomero, una lunga via gradinata che, con 414 gradoni, permette di scendere fino alla città bassa, ricongiungendosi con Corso Vittorio Emanuele. E’ con ogni probabilità il più antico percorso di accesso al Vomero (esisteva già a metà Cinquecento), utilizzato in passato per raggiungere il Castel S.Elmo, e per questo dotato di sistemi di difesa contro gli assalti nemici. Lungo il percorso, si incontrano vecchie abitazioni, notevoli viste sul panorama del centro storico, e si costeggiano i giardini e le vigne della Certosa di San Martino da ieri 16 dicembre, monumento nazionale.
Dalla magnifica terrazza dell’Osteria di Mario Bianchini si vedono le Scale di Sant’Antonio ai Monti e l’Olivella che conduce alla zona della Pignasecca. Il nome originario dell’osteria doveva essere “ Totò, Peppino e pasta e fagioli”,
poi, per un disguido burocratico Peppino è stato sostituito dall’altrettanto mitico Eduardo. L’importante è che non sia stato sostituito Totò, il Principe de Curtis, perché la moglie di Mario, Rosaria De Curtis è parente del principe napoletano per antonomasia, nato nel Rione Sanità. Il locale, oggi si trova nel caos del Corso Vittorio Emanuele, sommerso da mille attività, traffico, motorini, la vicina facoltà universitaria del Suor Orsola Benincasa,
lo svincolo che porta alla tangenziale e le difficoltà di trovare parcheggio. Mario non si arrende, sul marciapiede di fronte l’osteria ci sono una serie di garages di amici sempre pronti ad ospitare le auto dei clienti. Un po’ di anni fa – mi racconta Mario – non c’èrano garages ma piccole botteghe, tappezzieri, un barbiere e qualche basso, ora è tutto sparito, annullato, nel bene e nel male, dall’invasione della modernità.
Totò, Eduardo e pasta e fagioli non è sempre stata un’osteria, negli anni precedenti al dopoguerra era una semplice mescita di vino
e tale è rimasta fino alla fine degli anni ’70, quando Mario, cuoco autodidatta, allievo di mamma Anna, lo rileva per farne una semplice osteria con i piatti della tradizione napoletana. La storia di Mario è simile a quella di molti della sua generazione: ultimo di sei figli, poca voglia di studiare, comincia con lavoretti vari e a 12 anni entra in cucina dalla Pizzeria Gorizia, dove oltre a fare il “ragazzo” , comincia rubare il mestiere allo chef. Una volta cresciuto trova un posto come capo cuoco alla mensa dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, un malore lo costringe a lasciare la fabbrica, qualche esperienza al Nord, poi il rientro a Napoli, in cucina da Ettore in Via Gennaro Serra e da Amici Miei. Da circa trent’anni, Mario Bianchini, con l’aiuto saltuario dei due figli Gaetano e Francesco e della moglie Rosaria quando non è impegnata nell’altro locale storico di famiglia, l’Alimentari – tavola calda De Curtis in via Alabardieri, abita praticamente nella cucina dell’osteria, aperta a pranzo e cena. La cucina è davvero quella di casa, non solo per la classicità dei piatti proposti, ma per i sapori identici a quelli domestici. Il menù non è particolarmente ricco in termini di numero di piatti proposti, ma la genuinità dei sapori è emozionante e fortemente evocativa. I prodotti usati in cucina sono eccellenti, la cordialità e la semplicità altrettanto, un paio di episodi mi fanno capire tanto del modo di essere di Mario: un lunedì – giorno di chiusura – fuochi spenti, capita una coppia di turisti, non sanno dove andare, Mario accende i fornelli e non chiede il conto; un gruppo di studenti finisce il pranzo, i ragazzi si rendono conto di non avere soldi a sufficienza, anche qui Mario non batte ciglio, niente conto. Veniamo ai piatti, il fiore all’occhiello dell’osteria è la pasta e patate con la provola, ora, si fa presto a dire pasta e patate, ma, vi assicuro ( con cognizione di causa) ho assaggiato la migliore pasta e patate con provola, come non la mangiavo da anni: non mancava nulla, il sapore di sottofondo del battuto di verdure e aromi soffritti, la cremosità delle patate, parte intere e parte frullate, la “mescafrancesca” perfettamente al dente, provola perfettamente fusa e senza poltiglie, misto di parmigiano e pecorino romano grattugiato e un tocco di piccante, a Napoli diremmo, “‘a uerra”.
Ancora una minestra, pasta e ceci, ritorna la memoria di casa, il modo di cucinare di mia madre, i ceci parte interi e parte in crema, di nuovo pasta mista, spruzzatina di prezzemolo e piccante a piacere.
Poi un classico napoletano “‘ O Scarpariello”, per 2 persone: 250 gr. di maccheroncelli o penne;600 gr. di pomodorini freschi per il sugo; 50 gr di strutto o grasso del prosciutto;50 gr. parmigiano grattugiato; 30 gr. pecorino romano; 4 cucchiai di olio extravergine di oliva; 1/2 spicchio d’aglio; peperoncino a piacere o olio piccante ( alla fine il sugo deve essere piccante!); basilico e prezzemolo. La “zuppetta” o “scarpetta” con il pane che Mario fa arrivare da Frattamaggiore è obbligatoria.
Dalla cucina arriva un insistente profumo di cipolla: “ è la genovese, – mi dice Mario – l’ho messa a fare ieri sera, sta finendo di imbrunire.” Uno spettacolo con il pezzo di gallinella morbido come il burro. Ad ora di pranzo l’osteria non è molto piena, questa non è una zona di uffici, gli studenti della vicina università si accontentano della mensa, ecco perchè Mario prepara soltanto primi piatti. naturalmente i secondi espresso sono sempre disponibili.
La sera è una festa, il locale è sempre pieno, meglio prenotare. Si comincia dagli antipasti: la frittura napoletana, i crocchè di patate e gli arancini veri, provola, prosciutto cotto, pepe e prezzemolo per i crocchè, carne macinata, mozzarella, sugo, piselli e prosciutto per gli arancini. Le montanare, deliziose, bollenti pizzelle fritte condite con sugo di pomodoro, basilico e parmigiano, le paste cresciute e i piccoli ripieni di ricotta e prosciutto, o, scarola e il “pignatiello” di fagioli.
Ancora la frittura di “fravaglia”, freschissima presa al mercato in Pignasecca, citando il mitico Lellobrak: “i giovani pesci di una determinata specie (fravaglia ‘e treglia, fravaglie di sarde, d’alici ) e più genericamente l’insieme di novellame (escluso il novellame appena nato: i cosiddetti bianchetti che in napoletano son detti cicenielli) di specie diverse messe in vendita mescolato ed adatto soprattutto alla frittura. Cominciamo a dire che la voce napoletana fravaglia ( che – contrariamente a quanto ritenuto dai piú – io non reputo sia da collegarsi al verbo lat. frangere= spezzare giacché (per quanto si faccia) sia morfologicamente che semanticamente non si riesce a trovar nessi soddisfacenti. Mi pare invece più perseguibile sia per la morfologia, che per la semantica, la strada di un sia pure non attestato neutro plurale *fragalia da un sing. *fragalium = cose odorose intese poi femminili, derivato dal lat. fragare= essere odoroso ); dicevo dunque che la voce napoletana fravaglia è pervenuta con i medesimi significati del napoletano nella lingua nazionale dove però è fragaglia.”.
Gli antipasti proseguono con verdure alla griglia, polipetti alla “luciana”, polpi cotti in casseruola, tradizionalmente di terracotta, insieme a pomodoro, aglio, ulive di Gaeta e capperi.
Si condisce con pepe e, a fine cottura, si completa con prezzemolo tritato. Non va aggiunta acqua durante la cottura. Un proverbio napoletano, recita, infatti: “‘O purpo se coce int’ all’acqua soja”, il polpo si cuoce nella sua acqua:). Fanno parte degli antipasti alcuni must della cucina napoletana a base di verdure, si tratta tuttavia, di preparazioni talmente ricche e saporite da poter sostituire un intero pasto, stiamo parlando della parmigiana di melanzane, dei peperoni imbottiti e delle zucchine o melanzane a “scarpone”. Durante il periodo migliore dei pomodori di Sorrento, fine primavera – inizio estate, Mario li prepara farciti con il riso alla marinara, o in versione campagnola con riso, carne macinata, mozzarella e piselli.
Tra i primi piatti, oltre a quelli citati sopra, ci sono naturalmente il ragù con la sua carne, gli gnocchi alla sorrentina, i paccheri alla “mammà”, altro piatto forte dell’osteria con ragù, ricotta e mozzarella, la pasta e fagioli, i primi di mare a seconda del mercato e della stagione: spaghetti a vongole, cozze, paccheri con la pescatrice. Tra i secondi la carne la fa da padrone, tutti i pezzi del ragù: tracchie, cotica, salsiccia, polpetta, gallinella. Ancora carne alla brace, agnello, costolette di maiale, scaloppine al vino, o al limone. Sul lato mare c’è un solo pezzo forte, i clienti lo prenotano e arrivano da ogni parte per mangiarlo: il baccalà alla luciana.
La mozzarella, che può rientrare tra gli antipasti o i secondi, arriva dall’agro aversano. I contorni sono rigorosamente tradizionali: friarielli, peperoni al grattè, melanzane a funghetti e tante insalate.
I dolci della tradizione napoletana, pastiera, torta caprese, tiramisù e ricotta e pera sono fatti in casa, qualche puntata sui dessert siciliani arriva dalla famosa pasticceria in Corso Vittorio Emanuele, Sapori di Sicilia, altro locale con cinquant’anni di storia. Degno della miglior tradizione napoletana il caffè. A scelta ed offerto dalla casa limoncello e amari di vario tipo. La cuenta? Per un pasto completo non si superano i 15 – 18 euro, se si sceglie il baccalà si arriva a 20, incluso il vino della casa, piedirosso o falanghina dei Campi Flegrei. Baccalà, un’insalata e un bicchiere di vino, 10 euro.
Il locale si compone di due deliziose salette in legno, circa 50 coperti e poi c’è il bellissimo terrazzo con vista sul golfo e sul Vesuvio dove durante la bella stagione possono sedere anche 80 persone. L’atmosfera è davvero casalinga, d’inverno con il freddo si tira un sospiro di sollievo per il calore che Mario dimostra a tutti i suoi clienti e per i magnifici piatti caldi pronti in pochi minuti. D’estate ci si “arricrea” (consola) per il fresco della terrazza, per l’allegria di Mario e, tutto sommato, per il panorama di una Napoli, che, nonostante tutto, è sempre tra le più belle città del mondo.
Chiedo a Mario: “ma non siete stanco, sempre qui dentro”? Mi risponde: “ io amo stare tra la gente, mi manca la Napoli di una volta, quando la gente si salutava, si parlava, mi piace capire le persone, se, per esempio vedo che al tavolo ci sono persone che possono spendere non mi preoccupo se si sale di qualche euro, se vedo che magari c’è un marito che ha fatto sacrifici per portare la moglie a cena fuori pur di vederla felice, mi commuovo anch’io e gli faccio lo sconto, insomma, erano meglio i bell’ tiemp’’e ‘na vota quann’’a gente se vuleva ‘bbene”. Quasi, quasi sono d’accordo con Mario…
di Giulia Cannada Bartoli
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