Una cantina, un vitigno, un vino. Ecco qua le aziendine che ci piacciono proprio tanto perché mantengono con fermezza la loro vocazione produttiva senza inseguire le mode commerciali e mediatiche. Solo distinguendosi, definendo con estrema chiarezza la propria identità, è possibile emergere in questo mercato così maturo da essere ormai saturo. Noi sappiamo, ad esempio, come il genius loci del Greco di Tufo, il bianco tranquillo più venduto nei wine bar italiani, abiti tra le vigne di Benito Ferrara, Petilia e Cantina dei Monaci. Poi, è chiaro, ci sono tanti altri prodotti eccellenti, anche più buoni. Ma il punto non è questo, Gravner docet. Bene, Torricino rientra a pieno titolo nella categoria di aziende capaci di definire il varietale. Attenzione, il cognome Di Marzo del titolare non svela alcuna parentela con gli ex proprietari delle miniere, a Tufo è come dire Esposito a Napoli, ma è sicuramente un segno del destino che la prima e l’ultima azienda di questo paese ignaro del suo vino famoso nel mondo portino lo stesso cognome. Stefano, quarta generazione, dopo aver studiato enologia a Firenze è tornato sui terreni argillosi calcarei della famiglia sparsi un po’ qui e un po’ là. Sicuramente il più spettacolare è quello, giallo come il sole, sulle miniere abbandonate negli anni ’60. L’ultimo nato a Tufo ha dunque le idee molto chiare, lavora per conservare la freschezza nel bicchiere attraverso l’equilibrio dell’alcol e della morbidezza. Dopo una prima prova nella difficile annata 2002, è entrato in commercio con la vendemmia 2003, la prima del docg come buon auspicio. Qualcuno si domanderà: come mai solo 20.000 bottiglie da otto ettari che ne esprimono potenzialmente almeno 80.000? Semplice, Stefano ha una cura maniacale per la potatura e la bassa resa per ettaro. Per questo i risultati sono così strabilianti, grazie anche alla voglia di puntare esclusivamente su un solo vitigno evitando la confusione in cui sono cadute tante altre piccole cantine irpine. Il Greco 2004 ha il pregio di non rinunciare all’acidità tipica del vitigno. L’esecuzione è classica, si usa solo l’acciaio e questo rende davvero incredibile il bicchiere carico di frutta, il naso è lungo come quello di Pinocchio, con una persistenza straordinaria, intensi sentori di erba di campo, poi frutta gialla, infine miele millefiori e pietra focaia. In bocca il vino è grasso, sapido, salmastro, minerale, una esecuzione molto bella ed efficace, da abbinare alla cucina marinara della Costa, magari ai mitici ravioli di pescespada di Gennarino Esposito. Piccole aziende serie cresceranno.