Dopo l’addio tra Luigi Tramontano e l’Excelsior di Sorrento l’autunno segna il distacco tra Andrea Napolitano e Palazzo Marziale dopo una sola stagione e di Domenico Iavarone da Capo La Gala
Insomma, dopo la grande ondata durata quasi vent’anni sembra quasi si stia chiudendo un ciclo nel territorio più stellato d’Italia, episodi tanto più incomprensibili alla luce di due stagioni di grandissimo successo turistico nel corso delle quali tutti hanno fatto il pieno di presenze come ai tempi d’oro che hanno preceduto la tragedia delle Torri Gemelle.
Dobbiamo infatti aggiungere anche la perdita di una stella da parte dell’Accanto dell’Hotel Angiolieri e di Villa Cimbrone a Ravello
Al di là dei singoli casi per i quali ci sono sempre due campane da ascoltare, colpisce la simultaneità di questi episodi e, soprattutto, il loro continuo ripetersi. Ricordiamo infatti il trasferimento di Giovanni De Vivo da Villa Cimbrone all’Hotel Manzi di Ischia, il trasferimento di Vincenzo Oliviero in Toscana.
Insomma, in Penisola sembra proprio che la maggior parte degli alberghi non riesca a trovare una linea chiara. Come mai? Troppa fretta nel volere gli obiettivi sia da parte dei cuochi che delle strutture? Poca voglia di investire tempo e danaro visti i guadagni facili di queste ultime due stagioni? Mancanza di ambizione?
Secondo noi quel che manca è soprattutto l’idea di ristorazione futura che si vuole praticare. La Penisola, grazie al Don Alfonso e alla Torre del Saracino, ma anche alla Taverna del Capitano, ai Quattro Passi, al Buco a Sorrento, da Nonna Rosa e alla Caravella, ha avuto il suo marker in una cucina semplice di materia che privilegia la ricerca sul prodotto mettendo la tecnica al servizio del piatto e non viceversa. L’impressione è che gli alberghi abbiano inseguito un modello di cucina molto astratto, simile a quello che negli anni ’90 si definiva gusto internazionale parlando di vino. Troppi prodotti di lusso dalle ditte specializzate con la conseguenza della mancanza di curiosità sul territorio e perdita di sapore nei pesci e nelle carni. Troppa spesa sui cataloghi e poca al mercato. Troppi piatti cervellotici e poca immediatezza, spontaneità, sapore.
La Costiera è da sempre sinonimo di libertà. Dell’animo e dalle convenzioni. Ecco, l’impressione è che alla cucina di territorio segnata dalla capacità della spesa al mercato come tratto distintivo, universale adesso nell’alta ristorazione, si sia intrapresa la strada di una cucina calligrafica, scolastica, incapace di emozionarsi e di emozionare.
Forse, allora, al di là dei problemi economici e di incomprensioni caratteriali, il punto vero è la mancanza di idee. Dovuta alla mancanza di viaggi e di studi. Sia da parte di chi investe che di chi cucina. All’Atelier de Robuchon l’altra sera mi hanno dato pane e pomodoro come aperitivo: per trovarlo in alcune di queste cucine, magari insieme alla pasta secca, bisogna andare a piedi a Pompei. Pensano di essere aggiornati non usando i prodotti della propria terra e fanno solo la figura dei provinciali che si aggiornano in tv. Che tristezza!
Ripeto un motto che ha avuto fortuna su Facebook
Non sai cucinare? Fai cose semplici. Sai cucinare? Ricerca la semplicità.
Ecco, negli ultimi tempi in Costiera la si è fatta troppo difficile, come in città. E, allora, perché venire sin qua per mangiare triglie, agnelli e baccalà che trovo nel ristorante stellato di Roma e di Milano?
Cover: The Long Goodbye, Robert Altman (1973)
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