Viene da sorridere rileggendo le note del 2015 e pensare che un po’ di intelligente umiltà, saper aspettare il proprio turno, moderare il proprio ego invece di affermarlo con violenza nei confronti di chi aveva costruito prima, avrebbe fatto bene a tutti. Purtroppo sono i corsi e ricorsi della critica, comune a tante altre attività umane: spesso per farsi spazio si sceglie la parte del bastian contrario a prescindere, in genere questa opzione è di chi non conosce bene la materia o di chi è afflitto da narcisismo cronico.
Sta di fatto che la bellezza del vino è il tempo, quel tempo che consente di misurare veramente i valori in campo. E questa magnum, invocata a più voci durante la consueta bevuta annuale fatta nella mia casetta di campagna ne è ben testimone: ha messo d’accordo tutti perché era buonissima. Nel corso di questi anni, ne sono passati sei, il vino ha acquisito un tono neoclassico, con un naso in perfetto equilibrio fra legno e frutto, una corrispondenza fra olfatto e palato, la complessa semplicità con la quale impatta nel bicchiere, capace di avvolgere tutto. Alla fine quello che stupisce sopra ogni altra cosa è l’assoluta eleganza che trasmette la purezza del frutto. La magnum certamente è il format che più di ogni altro aiuta il vino ad uscire. Ed è subito finita con sollievo. La domanda è: ha ancora margini di crescita? Probabilmente si, in direzione terziaria, come spesso è avvenuto in passato a questo vino. Basterà saper attendere!
Scheda del 9 dicembre 2015
Forse ho capito finalmente quale sia la vera linea psicologica discriminante tra la critica tradizionale e quella neopauperista: la prima abbraccia il classico, magari anche contestandolo, ma comunque appropriandosene, la seconda vuole semplicemente eliminarlo. Una linea che quando viene scavallata apre la pista dell’oscurantismo o del fanatismo gastronomico.
Le ragioni di questo atteggiamento, che valgono per la verità in molti settori del sapere, è che nel primo caso la rottura avviene rileggendo il passato e usandolo come trampolino di lancio, nel secondo caso c’è il negazionismo del passato.
Non si spiega altrimenti l’atteggiamento demolitorio che il neopauperismo regionale ha avuto su alcuni dei vini che hanno fatto la storia del Sud, una storia in cui si sono inseriti anche tanti vini esaltati dal neopauperismo da aziende che hanno chiuso il battenti o che hanno ancora problemi a rispondere a una mail.
La cosa peggiore avviene quando il negazionismo si nasconde dietro il tecnicismo astratto, quello che non solleva il naso nel bicchiere e non capisce che un vino come Terra di lavoro 2013, oltre ad essere un pilastro dell’enologia campana, è stato anche un faro su un territorio altrimenti destinato a restare buio, un territorio che nell’immaginario collettivo, anche campano purtroppo, non ha differenze con il fenomeno Terra dei Fuochi.
Galardi 2013 si presenta sempre un po’ in anticipo all’appuntamento con gli appassionati, naso di frutto maturo, grande freschezza ma anche tanta piacevolezza al palato. Un rosso di una terra silente ma ricca di biodiversità, da bere dopo la giusta attesa che può anche essere per tutta la vita perché parliamo di un vino che ha degli allunghi spaventosi nel corso degli anni. Un grande classico di cui bisogna essere orgogliosi e da esibire con orgoglio anche al prossimo grande pranzo di Natale che spendiamo con chi ci è più caro.
Scheda del 9 agosto 2015
Quand’è che un vino si può definire affidabile? Sicuramente quando riesce a resistere a lungo nel tempo, collocandosi sempre in una posizione primaria ed esprimendo una qualità costante e duratura. Per queste sue peculiarità è apprezzato e premiato sia dai consumatori e sia dai critici settoriali, nonostante le nuove e continue proposte di mercato e le mode passeggere. Se poi si aggiunge che il vino in questione è anche un unicum confezionato soltanto con specie varietali locali e rappresenta un’espressione prettamente territoriale come il Terra di Lavoro Campania Igp di Galardi, allora siamo certi che è davvero molto affidabile! Un’etichetta questa che ha fatto la storia di tutta l’enologia campana da vent’anni a questa parte, insieme a pochi altri vini rossi come il Montevetrano ed il Radici, che regala forti emozioni tutte le volte che lo si stappa e che non viene intaccato minimamente dalle scorie del tempo per un lunghissimo periodo.
Ecco che cos’è allora il Terra di Lavoro, un blend tipicamente campano composto da aglianico all’80% e saldo di piedirosso, che all’ultima edizione di Radici del Sud col millesimo 2013 è risultato vincitore assoluto nella sua categoria, così come decretato dalla giuria nazionale. Acciaio, barriques di primo passaggio e vetro contribuiscono alla perfetta maturazione del vino che alla fine tocca i tredici gradi e mezzo di alcolicità.
Il bicchiere è tinto di un colore non troppo concentrato e vivo Fascinoso l’impatto al naso che si manifesta con profumi fruttati di more, mirtilli, ribes, susine, amarene e bacche di ginepro. A seguire essenze di viola, di geranio, di menta, di eucalipto, di noce moscata e di pepe nero, che si avvinghiano a parvenze balsamiche, tostate, empireumatiche e perfino affumicate e sulfuree.
Sorso austero ed aristocratico e ricco di setosa estrazione tannica. Gusto dinamico, fresco, equilibrato morbido, sensuale, profondo, rotondo, elegante, sapido, ferroso e minerale. Allungo finale persistente e reattivo, prodromo ad una naturale evoluzione nel tempo di un vino molto longevo e che migliorerà ancora. Da preferire su piatti elaborati della terragna cucina regionale. Prosit!
Questa scheda è di Enrico Malgi
Sede a Sessa Aurunca (Ce) – Frazione San Carlo
Tel. e Fax 0823 708900 – info@terradilavoro.it – www.terradilavoro.it
Enologo: Riccardo Cotarella – Ettari vitati:10
Bottiglie prodotte nel 2013: 30.000, più 811 magnum e 289 doppio magnum
Vitigni: aglianico e piedirosso
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