A margine dello spaghetto al pomodoro di Davide Paolini
Da alcune settimane sono alle prese con il problema della semplicità, intesa da me come forte rischio di noia e banalità omologata.
Studio il fenomeno cercando la sua reificazione attraverso un complicato gioco di specchi riflessi al termine del quale Paolini (Sole24ore) e Laudadio (Striscia) sembrano uscire dallo stesso corso di studi.
Siamo preoccupati perché sappiamo che Milano, unica città capace di anticipare e imporre tendenze, sta frullando mediaticamente la semplificazione della semplicità.
Vero come la crisi riesca a sforbiciare la complessità sociale, una sorta di Maelstrom antropologico in cui tutti sono risucchiati dagli stessi bisogni primari e dalla paura inconscia di essere divorati.
Ma appare strana davvero l’ultima newsletter di Squisito con Davide Paolini, dotto e abile esegeta di tutte le stranezze e rarità gastronomiche prodotte dal genere umano nel mondo degli ultimi dieci anni, una vera enciclopedia vivente del superfluo oltre che del necessario, impegnato a decantare gli spaghetti al pomodoro come neanche Carlo Cambi è mai riuscito a fare nelle sue introduzioni Sturm und drang al Mangiarozzo. Lo slogan è “Ritorno alla semplicità”. Quale?
Ma come, pifferaio, prima ci porti fino in Sichuan per il pepe e a Tokyo per il pesce palla e sulle rive oceaniche alla scoperta del sale rosa, poi mentre noi continuiamo la marcia da te indicata scoprendo il vuoto, ti fermi e torni indietro da mammà?
D’accordo, c’è spaghetto al pomodoro e spaghetto al pomodoro, bocciato intanto il battuto nordico da lui suggerito, ma l’esibizione del manifesto semplice provoca invero contraddizioni di forma ma, a ben vedere, non di sostanza: chè Burdese e Slow Food scendono in campo per difendere l’alchimista Max Bottura mentre il critico apparaBaresani del quotidiano dei padroni (ma sì, viva la semplificazione dell’Ottocento a questo punto) si schiera con i mangiamaccheroni.
Al tempo stesso il nostro lider maximo del web, Bonilli, ci parla ultimamente troppo compiaciuto di coda alla vaccinara e delle patate proustiane quasi fossero il Santo Graal.
Come nel vino c’è stata reazione corale e unanime ai vini palestrati e marmellatosi, così, ringhio Laudadio, in cucina c’è la reazione alle esagerazioni di questi anni. Con la differenza che mentre quasi tutta la critica enologica parla di naturalità espressiva perfettibile grazie a grande artigianato in vigna e in cantina, parte di quella gastronomica rinnega se stessa e le lancette sembrano tornare pericolosamente indietro, più indietro delle farfalle al salmone degli anni ’80 e dei tortellini panna e prosciutto dei ’70, fino alle zuppe rurali.
Con una differenza vera però: quelle erano consequentia rerum, adesso sono invece solo un transfert televisivo perché per realizzare quella semplicità è necessario un lavoro di alto artigianato in campagna e di profondo recupero culturale e intellettuale del giacimento papilloso italiano sepolto sotto Carosello.
Sicché oggi c’è davvero poca distanza concettuale tra un cuoco molecolare e uno autenticamente naturale. Direi nessuna a parte l’approccio diverso alla materia.
Questa falsa coscienza della semplicità evidenzia il progressivo assorbimento dell’Italia in un corto circuito mentale simile al Ventennio per l’autarchia e al Giolittismo per la corruzione come scopo ultimo dell’esistenza politica.
Credo che l’unico modo per restare agganciati al resto del mondo in corsa è gridare con coraggio che la semplicità, intesa come modo di essere non artefatto, autentica è di difficile complessità mentre l’apparente complessità rilevabile dalla Grande Distribuzione altri non è che semplificazione delle biodiversità e delle differenze papillose.
Che la semplicità non è stare fermi e guardare indietro, ma sperimentare, innovare, creare.
Che la semplicità non è mai somiglianza distante ma rigorosa identità geografica.
Che la semplicità è raggiunta forse al termine di una vita piena di difficoltà e non quello che abbiamo lasciato nel grembo di nostra madre. Quella è la comodità, la comodità dei bamboccioni. La comodità degli ogm, dei surgelati, degli antiparassitari a go go, dei precotti. La comodità che porta alla più grande delle comodità, quella rivelata dall’encefalogramma piatto.
Che la rincorsa alla semplicità per negare la complessità è l’inizio del sonno profondo di un sapere gastronomico.
Perché la zuppa si può fare con l’orto di Pietro Zito e Peppe Zullo o usare la busta del Casale. Lo scopo della critica alla complessità è spingerci a usare la seconda.
Siete allora palati veri o palati bamboccioni?
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