di Titti Casiello
Alla domanda che cos’è il Teatro del Gusto la risposta non è immediata.
È un festival enogastronomico si, a Napoli nelle giornate del quattro, cinque e sei maggio con la fondazione Foqus a far da quartier generale.
“Ma è anche sentirsi qualcosa di più grande di se stessi, avvicinandosi agli altri in un passaggio dal singolo al collettivo” – spiega Annamaria Punzo ideatrice dell’organizzazione.
Sembra allora che la velleità rinascimentale della manifestazione, di restituire autenticità gastronomica, si fondi a quella della stessa fondazione arroccata nel cuore dei Quartieri Spagnoli e diventata simbolo di nuova bellezza e rinascita culturale di Napoli.
Riscatto e scommessa, queste le parole che il Teatro del Gusto ha intenzione di restituire alla città a chiusura dei cancelli.
“Il Teatro non nasce come un continuo delle fiere naturali né dai suoi dibattitti”, non un recupero insomma di qualcosa che già c’è stato, ma un luogo immaginato come nuovo a divenire metro di riflessione sul cibo e sul vino con le competenze di ognuno messe a disposizione delle altre, tutte in fila su di un pavimento di oltre mille metri quadri, quello che in origine fu voluto dalla gentildonna napoletana Maria Ilaria D’Apunzo.
Così nell’agorà del chiostro cinquecentesco si avvicenderanno i dibattiti di Nino Barraco da Marsala, di Stefano Amerighi da Cortona, di Luigi Sarno da Cesinali (AV), passando per il panificatore Carlo di Cristo e i ricercatori Roberto Rubino e Patrizia Spigno “le intenzioni sono di accogliere un’umanità vasta e sincera che porti un nuovo manifesto linguistico” perché effettivamente questa storia del «naturale/non» ha stancato un po’ tutti. Ne è sfinita pure la stessa etimologia, mentre è rimasta ancora sulla pista di decollo, quello che sarebbe dovuto essere un nuovo volano di crescita della cultura enoica.
E poi c’è la permanente, come in ogni museo che si rispetti. E’ quella affidata alla “Cucina Continua” ideata da Mario Avallone che con il suo Drugstore, a Napoli in Via Costantinopoli, urla ancora a ricette oneste, genuine e buone. Ci saranno cuochi e pizzaioli con le loro creazioni. In ogni caso procuratevi del pane per fare la scarpetta. È il gesto più autentico che l’ultimo dei monsù napoletani, come Avallone, si aspetta.
Nel mentre, le quattro navate dell’ex Istituto Montecalvario si popoleranno di banchi di degustazione della Sicilia, della Lombardia, passando per la Campania, le Marche e la Basilicata e lì salendo lungo l’intero stivale.
Ma presto sarà giugno e ci saranno di nuovo le ciliegie. Se le troviamo ora dovremo iniziare a pensare che c’è un problema. “Ogni stagione ha le sue doti” – dice Marco Ambrosino – chef di “Sustanza” nella Galleria Principe di Napoli – che col suo progetto di inclusione sociale e culturale del “Collettivo Mediterraneo” animerà nuovamente l’agorà cedendo poi le immagini del Tirreno al Professore Maurizio Paolillo tra alici di Cetara e limoni di Amalfi.
“E poi ci saranno le parole e il loro valore” continua Punzo, con la poetica di Miyazaki e il ritorno di Dioniso nella voce dello scrittore Emanuele Tartuferi o nell’ascolto delle parole sussurrate dalla poetessa Claudia Fabris che, come in una chiesa vuota, ci restituirà in cuffie Bluetooth un menu degustazione sotto forma di linguaggio.
E ancora le immagini con la storia del Marsala pre -British del regista Andrea Mignolo, tanto forti e dense da richiamare la tirannia e la tenacità evocativa della stessa Sicilia.
Lo spettacolo sta per terminare. Il suono degli appalusi. O quello che fa il vino quando riempie il calice. E’ un “Si è buono” diventa quasi sempre corale al punto tale che non si sa se lo diciamo per convincerci che sia veramente così o per giustificare che abbiamo fatto la scelta giusta al ristorante. Iris Romano, ostessa del Bicerin a Milano, e il giornalista Matteo Gallello, proveranno a spiegarci la linea di confine.
Questi e tanti altri incontri e degustazioni in una fabbrica artigianale del food e del vino che sembra avere proprio il gusto e il carisma del “Pranzo di Babette” di Gabriel Axel. Di quella Babette che in quel piccolo villaggio sulla costa danese ha avuto “il merito di rianimare i componenti di una piccola comunità religiosa che per fede e principio ha sempre rinunciato ai piaceri di questo mondo” – nelle parole della scrittrice Allegra Alacevich che dall’omonimo film ne ha tratto, poi, un libro di ricette – o “che per fede e principio ha rinunciato all’autenticità dei sapori di questo mondo” nelle parole di Annamaria Punzo.
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