“Ci sono numerose e diverse interpretazioni del suolo irpino e della sua viticoltura, ma per noi è importante tenere bene la barra dritta verso le origini da cui è partita la nostra storia.” Questo il senso di una degustazione organizzata da Piero Mastroberardino nella storica azienda di Atripalda, alle porte di Avellino, terminata con un omaggio al padre Antonio, nipote di Angelo (1848-1914) pioniere di questa manifica storia, responsabile del sogno di aprire le frontiere internazionali , principalmente in Francia e negli Stati Uniti. E’ Angelo a iscrivere nel 1978 l’azienda alla Camera di Commercio.
Michele (1886-1945), padre di Antonio e nonno di Piero, affermò il successo dei vini irpini negli anni Trenta, il periodo d’oro della viticolturas. Antonio ha poi giocato un ruolo chiave nel conservare i vitigni autoctoni dopo la fillossera e il disastro provocato dalla guerra.
Dice Piero: “Parliamo di 60 anni di storia perché in realtà noi siamo ripartiti dagli anni ’50 dopo la guerra e dopo la crisi della Fillossera.”
Ormai è abbastanza chiaro che l’Aglianico è un vino che non muore mai. Diverse degustazioni lo mostrano giovane e imberbe nei primi dieci anni, appena equilibrato sui venti. Certo, il profilo olfattivo è un po’ il punto debole in degustazione perché è un vino da cercare, che non si impone. La sua manifesta superiorità è in bocca, dove la freschezza è inesauribile, la materia piacevole ma non ingrombante, i tannini, se ben affrontati in campagna e in cantina, capaci di regalare grandi soddisfazioni.
Note comuni di tutti e sei i campioni, uno per decennio: colori non concentrati, nasi che si concedono solo dopo un po’ di tempo, tanta freschezza in bocca, energia vitale e nessun segno di cedimento o di stanchezza..
Mastroberardino conserva il primo posto nelle aziende campane proprio per la determinazione con cui Piero ha accumulato il tempo in cassaforte. Diventa difficile per quasi tutte le aziende sostenere deustazioni che in profondità vadano oltre la metà degli anni ’90 o perché hanno iniziato dopo o perché hanno venduto tutto senza preoccuparsi di costruire l’archivio, dunque la memoria, dunque il futuro commerciale.
Il punto infatti non è la qualità, data ormai buona sempre, e neanche il punteggio di una annata. Ma avere la possibilità di viaggiare nel tempo e vivere perciò emozioni impagabili, come è accaduto sabato ad Atripalda.
Taurasi Radici Riserva 2006 docg
Annata complessa, con piogge frequenti in luglio, agosto e settembre e con un abbassamento della temperatura ad agosto. In ottobre è stato perà possibile un lungo recupero di tutto, con una vendemmia rimandata anche per un ritardo della maturazione completa delle uve.
Il naso è tipico dello stile Mastroberardino, si lascia cercare, non si impone. Ma è molto persistente. La prima sensazione è quella di frutta fresca croccante, amarena.
In bocca invece è molto aggressivo, non ha alcun ingresso dolce, ma è molto fresco e impone attenzione. Prevale la sensazione di salato, o meglio, mancanza di zuccheri. Al palato è pieno, completo, il finale luno e pulito.
Un benchmarck tradizionale di Taurasi, rosso da abbinamento al cibo.
Taurasi Radici Riserva 1996 docg
Si conferma annata difficile per i rossi del Sud perché dopo un andamento climatico molto regolare ad agosto si sono registrate temperature tra le più basse degli ultimi decenni con la conseguenza di una maturazione molto lenta delle uve.
Rispetto alla 2006 c’è una relazione più decisa tra ciò che esprime il maso e le sensazioni in bocca. Infatti i sentori fruttati, pur presenti, sono molto deboli, lasciando spazio a cenere e sentori del sottobosco. Il vino ha una verve pazzesca e comunque riempie molto bene il palato. Lungo, anche questo da abbinamento, ancora molto giovane.
Taurasi 1985 doc
Una annata molto precisa, didattica: maggio piovoso e caldo, giugno e luglio siccitosi, agosto con pioggia e non afoso. Ottimo settembre con escursioni termiche anche di 15 gradi sino alla metà di ottobre. E’ una vendemmia del Dopoterremoto, dobbiamo ricordarlo, fatta cioè in anni molto difficili per la Campania, ma è proprio in questo periodo che si pongono le basi per la rinascita della tradizione perduta perché l’azienda leader impone comunque sul mercato i vitigni del territorio.
Rispetto alle prime due, si sente il caldo del sud nella frutta molto ben evoluta ma mai stanca. Il vino infatti, inutile sottolinearlo, è assolutamente integro come tutti i sei i campioni in degustazione. Inizia anche un processo di terziarizzazione con note di cuoio, funghi, cenere, tostato. Anche sentori animali. In bocca comunque il vino è equilibrato con una acidità ancora scissa, pensate, sono passati oltre 27 anni, ma che tira dietro un buon corredo fruttato che si ritrova in bocca molto preciso e appagante. Lungo, eterno, infinito. Un vino che non potrà mai morire.
Taurasi Riserva 1970 doc
Si tratta della prima annata doc, abbastanza regolare con una vendemmia che inizia il 20 ottobre per terminare a metà novembre.
Il naso è una evoluzione del 1985, con sentori di fiori secchi, spezie, macchia mediterranea a cui seguono ancora, incredibile, note di frutta, amarena e conserva di amarena. Avverto anche sentori di arancia candita, e poi ancora la cenere. Dopo un po’ c’è qualche nota balsamica. In bocca il vino ha una energia spaventosa: a sorpresa la sensazione di frutta rossa matura ben evoluta domina la beva sostenuta dalla freschezza. Un Taurasi spiazzante e soprendente: ad averne, da bere a casse intere per questa sua capacità di esprimere vitalità e ricchezza.
Taurasi riserva 1961
Annata poco prolifica a causa della siccità e della fioritura abbondante. La vendemmia fu anticipata proprio a causa delle piogge scarse. Il naso è coperto dai sentori di cenere, rami e foglie bruciate. Subentrano sentori di cuoio fresco, e poi di drogherie e di erba secca. In bocca la musica cambia leggermente registro, con la freschezza per presente che però segue, dopo aver aperto la strada, e non precede l’impianto materico. In bocca tornano sentori di frutta che non avevo percepito invece al naso.
Taurasi 1952
Grande raccolta tardiva, da impianti ancora tutti a starseta. A luglio e agosto si verificarono grandi precipitazioni che determinarono un ritardo della maturazione. Naso con una volatile inizialmente dominante ma in seguito abbastanza complesso, da drogheria araba, con spezie, semi, erbe secche. Trovo anche in questo caso la cenere, ma stavolta in seconda battuta.
In bocca invece è molto vitale, demoniaco. Acidità e note di frutta dominano in maniera incontrastata la beva e lasciano la bocca tonica e fresca con equilibrio tra il frutto e l’acidità. Il ritratto di Dorian Gray dell’Aglianico?
La grandezza dell’Aglianico è nella considerazione che sino agli anni ’90 non c’era questa attenzione in campagna, pensiamo a come arrivava l’uva negli anni ’50 da Montemarano: un vero viaggio!
Infine una considerazione da bianchista incallito: il Greco e soprattutto il Fiano non sono da meno dell’Aglianico nella loro capacità di attraversare il tempo. Basta crederci.
Con questa degustazione si ribadisce, insomma, che grazie alla Mastroberardino il vino esiste in Irpinia. Ma non perché è stato tra i primi (ricordiamo Struzziero e Di Marzo) quanto per questa capacità di capire il valore del tempo come vero grande investimento. A volte la pazienza e l’attesa valgono mille uffici marketing e mille vini evento.
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