Per uno strano gioco di marketing negli anni ’90, da noi non condiviso, i rossi più famosi della Feudi di San Gregorio, la portaerei del vino campano nata nel 1991, sono il Serpico e il Patrimo, ossia un blend di aglianico e piedirosso e un merlot. Mentre per i bianchi ci sono sempre stati pochi dubbi sulla necessità di puntare su Fiano di Avellino, Greco di Tufo e in seconda battuta sulla Falanghina, inspiegabilmente il Taurasi è stato sempre lasciato un po’ da parte nonostante alcune mirabili esecuzioni del cru più conosciuto, il Piano di Montevergine.
Quest’anno Antonio Capaldo e Pierpaolo Sirch, da poco al timone dell’azienda che ha cambiato l’immagine del vino meridionale, vogliono puntare invece sul Taurasi base e fanno bene, perché hanno una bella annata in cartuccia: la 2005. Si tratta infatti di un millesimo nervoso, non facile da gestire in vigna e in cantina, dalla pronunciata acidità e da una salutare diluizione molto efficace nel costruire la controtendenza ai vini concentrati e marmellatosi. Il Taurasi base dei Feudi riflette questa tendenza sin dal colore, rubino intenso ma non impenetrabile, al naso prevalgono le note eleganti e speziate del legno a cui subentra buona frutta rossa ben maturata e sostanzialmente in equilibrio. Al palato il vino si presenta di buona beva, molto caratterizzato, strutturato, alcol e tannini presenti ma non invadenti, abbinabile ai cibi del territorio nonostante il taglio olfattivo più internazionale. Una via di mezzo, insomma, la ricerca del necessario equilibrio tra la necessità di parlare a tutti e al tempo steso di non tradire la mineralità territoriale.
Verso questa direzione sono avviati i bianchi direi sin dall’annata 2007, una decisione politica passato attraverso il reimpianto, certo non indolore, di molti vitigni irpini in sostituzione di quelli non campani messi a dimora negli anni passati. La grande forza dei Feudi è nel suo mare di vigne, oltre 250 ettari, che costituiscono un patrimonio di grande valore destinato ad apprezzarsi nel corso degli anni, con la maturità delle piante e l’incrociarsi del loro frutto con l’esperienza. Benissimo con il coniglio o lo stracotto all’aglianico di Paolo Barrale, lo chef del Marennà, il ristorante stellato dell’azienda dove la cucina appare in decisa crescita e molto motivata. Una bella realtà, insomma, di un Campania non rassegnata, artefice del suo cambiamento.