Era un bel po’ che non bevevo il Taurasi 1997 di Mastroberardino, quello con l’etichetta bianca della Riserva. Becchiamo l’ultima bottiglia in un nuova braceria aperta proprio di fronte alle mura di Paestum e la prendiamo senza esitazioni. Non faremo il paragone impietoso con un supertuscan che costava il doppio ed era più giovane di quattro anni. Per carita, vino dignitoso, che ha retto nel tempo, ma assolutamente niente in confronto alla fresca, al nerbo, alla energia e alla capacità di questo Taurasi. uando diciamo che l’Aglianico è un grand evino dovremmo sempre aggiungere: un grande maratoneta. Perchè sulla lunga distanza che si distingue e riesce ad emozionare. C’era ancora frutta fresca, note di tabacco, cenere. Chiusura amara, perfetta. L’ultima annata interamente gestita da Antonio Mastroberardino è davvero preziosa, il segnale di voler andare avanti a prescindere dalle mode e oggi, dopo due decenni, appare in maniera inconfutabile quanto fosse moderno il pensiero di restare tradizionali di fronte alla corsa verso la morbidezza assouta e i vitigni internazionali che per fortuna in Campania non hanno attecchito.
Un vino che si è sempre espresso molto bene anche nelle numerose verticali che abbiamo fatto, figlio di una stagione allepoca definita la migliore vendemmia del secolo anche se non era vero. Ma eravamo agli inizi di una spinta mediatica nella quale Montalcino e Bordeauxn dettavano legge anche alle vigne die briganti. Tempi sepolti nella memoria di noi vecchi cronisti di quei tempi.
Verticale Taurasi Mastroberardino
Scheda del 29 gennaio 2014. L’amico Nico Piro lavora per il Tg3, gira il mondo da inviato e conosce Kabul meglio di Roma. Vive l’enogastronomia come appassionato e noi talvolta gli abbiamo chiesto qualche recensione: trovate in questo sito quella di Tassa e di Cuttaia, tanto per gradire.
Mi scrive entusiasta su Fb del Taurasi Radici 1997 di Mastroberardino, ne sono felice e mi viene di getto: ma perché non la spieghi da giornalista/appassionato? Basta con i sentori di cenere e carbone, spiegami perché l’hai conservata, come mai l’hai scelta e che cosa hai provato, proprio come farebbe una persona qualunque. Ne è uscito fuori un bel pezzo, fuori dai noiosi neologismi tecnici. Il modo giusto per attraversare il vino e rimetterlo tra gli appassionati. Per valutarlo servono gli esperti, ma per viverlo basta avere sensibilità.
di Nico Piro
L’avevo trovata alla fine degli anni ’90 in un armadio nella casa dei miei genitori.
Un regalo venuto fuori da un cestino natalizio e lasciato lì ad impolverarsi perchè secondo mio padre -memore di antiche tradizioni vesuviane – l’unico vino buono è quello «vivo» ovvero mai più vecchio di un anno dalla vendemmia.
Così quella bottiglia di Taurasi Radici 1997 di Mastroberardino l’ho conservata, fino all’altro ieri. Ho resistito più di un decennio perchè ero convinto di avere per le mani qualcosa di prezioso; convinto che l’aglianico è un vitigno delle cui potenzialità sappiamo solo una cosa: dove inizino, non dove finiscano. Ho resistito di fronte alla strage di vino campano che vedo ogni anno, bottiglie stappate troppo presto (un delitto quindi senza movente). Ho resistito nonostante abbia sempre visto Mastroberardino come una cantina troppo tradizionale o forse l’ho fatto proprio per questo. Vado avanti anche a suggestioni e istinto più che a enologia applicata nel mio vagare da profano-devoto (come dicono gli ipocriti neo-con di casa nostra) del vino.
Poi arriva una cena con amici vinofili, tra loro uno (salernitano) che mi accusa di essere troppo filo-campano e filo-brunello mentre lui ama scrutare ogni orizzonte enologico italiano; l’altro che convive con una cassetta di Zind Humbrecht in salotto e se esistesse la tessera millemiglia dell’enoturismo avrebbe la freccia alata.
Così un paio di ore prima della cena rompo gli indugi, apro il frigo del vino e tiro fuori – tra i rimorsi – la Radici del ’97. Mentre si «riscalda», mi arrovello col decanter tra le mani, cerco di capire se devo aprirla prima e quanto prima. Ma opto per la sfida nella sfida, la apro quando gli ospiti arrivano a tavola.
Il tempo di mangiare il primo (una pasta con pesto dei miei preferiti pistacchi afghani) e passiamo ai formaggi: tocca al Radici. La sorpresa è totale. Il vino è maturo ma non anziano, è elastico, elegante, morbido, si beve facile senza alcool che ti invade la bocca e domina i sapori. Mi aspettavo un vino imponente invece si accoppia bene anche con i formaggi più delicati, quelli con più sfumature.
Al secondo bicchiere si è aperto, le bacche rosse che tutti gli esperti sentono in bicchieri del genere (assieme agli umori di lepre fuggita…), saranno state messe in liquidazione, al loro posto c’è tanta profondità che non so dove porti per quanto è complessa. Uno degli amici dice di sentire una nota di tabacco, il vino continua a cambiare intanto. Sarà il risveglio della primavera ma ora sembra “fiorito”.
Guardo il tappo di sughero che ha tenuto perfettamente in tanti anni e mi accorgo che la bottiglia è finita, la annusiamo un po’ dispiaciuti, non ci sono nè tannini nè quel solito fondo di «vinosità» del deposito, la «posa» non è nemmeno nei bicchieri.
Un vino ultra-decennale per nulla liquoroso, gli esperti parlerebbero di ossidazione e di zuccheri precipitati, non lo so io posso dire che non sapeva di “porto” amaro come capita a certe bottiglie troppo invecchiate. Il rimorso mi assale per la bottiglia finita e la curiosità inattuabile del continuare a esplorarla.
Di sentori primari e secondari non so nulla, guardo mia moglie famosa per il suo naso newyorchese, città dove sanno a 200 metri di distanza che colonia usi – o dovresti usare…. Ma l’impressione è la stessa, del vino più che i sapori sono la dimensione, i livelli, il corpo «atletico» ad impressionare. E se avessi aspettato ancora?! Beh avrei potuto farlo…
Il frequenti flyer ne lascia un po’ nel bicchiere, lo annuserà per un’altra ora. L’ho ammutolito. L’altro che solitamente mi accusa di essere “consueto” mi chiede dove si possano comprare annate del genere.
Il punto è che non si trovano o si trovano per caso. Mi viene da pensare a quanto siamo sciocchi noi campani o forse troppo generosi, bottiglie del genere dovrebbero essere “embargate” per anni e poi messe sul mercato, così sarebbe più facile raccontare dei prodigi dell’aglianico e scatenare la leggenda, invece vanno via come la coca cola con la pizza.
La bottiglia è ancora lì vuota. Apro un Birbone del 2007 di Barbi, un vino che amo per quanto costa e per quanto è buono, per la sua allegria elegante con tanta vaniglia, un rosso vero ma senza la presunzione dei super-tuscan. Nulla da fare. La memoria del Radici lo annulla, in bocca è inconsistente. La sua consueta classe sembra solo bel portamento paragonata al monumento all’eleganza del Radici. Mi assale il senso di inquietudine di aver sprecato una bottiglia.
Gli amici chiacchierano, felici, dopo il Radici non ci punzecchiamo nemmeno più parlando di quell’universo dell’opinabile che è il vino. Guardo il mio frigocantina ma vedo solo il vuoto lasciato dalla bottiglia, devo riempirlo con un altro Taurasi: appuntamento tra dieci anni, inshallah.
Qui l’ultima verticale Mastroberardino a cui ho partecipato
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