STRUZZIERO
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: fuori commercio
Fermentazione e maturazione: legno
Ci sono pochi dubbi, ormai, che l’Aglianico sia una delle uve più affascinanti del mondo: la prova migliore è nella sua incredibile longevità, una proprietà che molti colleghi conoscono soprattutto grazie al 1968 e al 1972 di Mastroberardino e di cui ho trovato conferma anche in questo 1982 fatto da Giovanni Struzziero, il papà di Mario, che adesso, terza generazione, porta avanti la cantina. Io devo levare ancora una volta il grido di dolore rivolto ai produttori nel loro interesse: conservate le annate, costruite la vostra storia, cosa sarebbe l’Italia senza le chiese, le aree archeologiche, Pompei e il Colosseo? Sarebbe qualcosa di urbanisticamente rivoltante come solo gli Stati Uniti sanno essere al mondo, adesso imitati dai cinesi che spazzano secolari quartieri di Pechino come noi possiamo togliere la polvere dal tavolo.Sono 139 le aziende irpine attualmente registrate alla Camera di Commercio, la stragrande maggioranza è talmente stordita da questa possibilità di vendere tutto che non conserva nulla, così facendo si impedisce il futuro vivendo solo un presente che sicuramente è aureo (non c’è più Fiano 2006 nelle cantine), ma non possiamo assolutamente prevedere per quanto tempo. A questo si deve aggiungere il fatto che la viticoltura irpina è storia recentissima, basta pensare che prima del 1990 etichettavano solo in dieci. Carmine Fischetti mi diceva oggi che aumenta la richiesta di vino bianco campano invecchiato, ma l’Oasis di Vallesaccarda ha ormai finito le scorte di More Maiorum e anche i maggiori fianisti non ne hanno. Ecco perché in questo contesto diventa un avvenimento bere una bottiglia di qualche vecchio millesimo, come è capitato a me con questo 1982, l’ultimo anno in cui ho visto con gusto una partita di calcio, mi riferisco ovviamente ai mondiali di Spagna. Vi direi a questo punto che se fossi un enotecario con le spalle larghe comprerei a man bassa e aspetterei una decina di anni per mettere a prezzi inestimabili le vecchie annate: pensate ad esempio alla 2007, come alla 1997 e alla 1987, mi faceva osservare Mario come sia straordinario questo numero giudicato magico nella società mediterranea antica. A conti fatti, il vino vive di opposti, non di mezze misure: sono grandi quelli che hanno immediata piacevolezza oppure quelli capaci di sfidare il tempo. Una comitiva di giapponesi è andata a trovare Struzziero e, come hanno fatto con me, padre e figlio hanno offerto loro una 1985: perché gli stranieri avvertono il fascino irresistibile del tempo e della tipicità mentre noi si vive da una vendemmia all’altra. All’inizio era maderizzato, poi, come un Gaglioppo, dopo alcune ore è risuscitato in stile <Sepolto vivo> di Edgar Allan Poe. Il mio 1982, in verità, è apparso subito integro, neanche un residuo durante, stavolta sì, il necessario scaraffamento: un colore granata vivo, con brillante unghia arancione, come quelle donne dall’età indefinibile, belle e più forti del tempo. Avessero cambiato il tappo come fa Biondi Santi, mi sarei trovato di fronte ad un grandissimo rosso, purtroppo c’era un banale problema portato avanti nel tempo, che poteva rovinare la festa, confermando però al tempo stesso le incredibili potenzialità della vinificazione vecchio stampo, ossia acciaio (in questo caso vetroresina) e poi botti grandi: a quell’epoca non c’era concentrazione in vigna, e neanche salassi in cantina, sicché il vino poteva essere attraversato dall’occhio sin nella sue profonde intimità. Le tecniche ingenue di vinificazione pre-metanolo producevano sicuramente dei vini un po’ monocordi al naso e in bocca, ma assolutamente stabili nel corso dei decenni, la differenza dunque era tutta, scusate, è tutta, in un accentuazione della dolcezza olfattiva e gustativa e un arrotondamento progressivo dei tannini fatto in maniera naturale, dunque perfetto. Il 1982 di Giovanni, dunque, al naso ha conservato questo sentore di amarena sotto spirito, un po’ di tabacco biondo ancora, e in bocca ha lo scheletro spolpato, robusto, integro perfino, che produce una beva cerebrale sicuramente impensabile nel 1985 o giù di lì, quando la maggioranza di queste bottiglie è stata inopinatamente stappata. Qui, ancora una volta, ho capito dunque le grandi potenzialità dell’Aglianico: se si procede alla zonazione geologica, poi alla costruzione dell’archivio in una quindicina di cantine, il gioco sarà fatto, Taurasi resterà nella memoria umana terroir vitivinicolo come il Falerno nell’antichità e quelli francesi moderni, altrimenti sarà solo un territorio dove si produce buon vino, magari cancellato da un altro territorio e poi da una malattia misteriosa come accadde per la fillossera. Sarà il commercio di qualità e non inesistenti virtù contadine a decidere quale bivio imboccare: la conservativa cultura rurale impedisce al prodotto di esistere, l’astuzia dello scambio lo crea, a patto di lavorare con serietà e sui tempi lunghi. Il 1985, dice Mario, si è ripreso dopo alcune ore e i giapponesi lo hanno comprato quasi tutto.Dopo alcune ore il 1982 resta fermo, la dolcezza aumenta anche se io sono stato attento a tenerlo fuori, protetto dal rigido clima irpino e poi riscaldato fra le mani, perché questi vini antichi non vanno bevuti a temperatura alta, quasi come se fossero dei bianchi strutturati, diciamo sui 15, 16 gradi al massimo, ché i tannini ormai sono domi e mansueti. Te ne accorgi per via di quel che resta in bocca, sentori dolci, quasi un po’ di impasto, non c’è più l’austera pulizia dell’amaro di cui l’Aglianico è capace. In quella cantina c’è un pozzo, sì, un pozzo, a volte le piogge lo fanno scolmare e le botti si bagnano i piedi, Giovanni e Mario devono mettere in funzione le pompe e risucchiare l’acqua, una bella battaglia di cui godono però le bottiglie in fondo, l’umidità è amica del vino, restituisce acqua alla frutta fermentata e la fa andare avanti, compensa quel che evapora, se mai può evaporare qualcosa in queste condizioni. Per questo la bottiglia non aveva avuto cedimenti, il tappo era integro, amico. Sono sincero, non so se resista meglio il Fiano o l’Aglianico al tempo, vedo come entrambi restituiscano sostanzialmente dolcezza all’uomo, dolcezza supportata da freschezza che vive sempre, come la coda della lucertola che continua a muoversi dopo che l’hai tagliata dal corpo. Scrivo di come sia importante bere vino sul cibo, ma questa rarità di occasioni mi spinge a dirvi: solo con un po’ di pane di Montecalvo e basta, per spezzarvi lo stomaco e sostenervi la beva. Mario mi ha dato un po’ di 2001, la vendemmia forse più bella del Dopoguerra, ma quando, allora, poter bere questo che adesso è Campoceraso docg? Nel 2010? Nel 2020? Non lo so: le bottiglie vanno aperte quando una voce dentro ti ordina di farlo, la tua gelosia ti blocca, allora pensi a come ne godrà chi è con te è potrai farlo. Una cosa comunque è certa: l’Aglianico è davvero grande, ché se in queste condizioni è vivo dopo oltre 25 anni, quanto mai potrà dire quello pensato con le tecniche francesi?
Venticano, Via Cadorna, 214. Tel. e fax 0825 965065. E mail: struzziero@struzziero.it. Sito- www.struzziero.it. Enologo: Mario Struzziero. Ettari: 12 di proprietà. Bottiglie prodotte: 500.000. Vitigni: aglianico, greco di Tufo, fiano di Avellino, coda di volpe, falanghina
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