di Fabrizio Scarpato
Bisogno d’affetto. A cosa servirebbe altrimenti tutto quello sproposito di sperticate altezze sparate al cielo, se non a urlare la propria esistenza? A cosa tenderebbe l’ansia costruttrice se non a dissimulare un’ombra di insicurezza? E l’affastellamento di matite colorate non potrebbero apparire come l’urgenza infantile di chi chiede aiuto? Bisogno d’affetto: Manhattan è il pianto di un bambino, è il capriccio che butta all’aria le matite, è, alla fine, il reciproco abbraccio che commuove e consola, la mano che ti accompagna, che ti culla, restituendoti bellezza, là dove apparentemente non c’è, attraverso infiniti cenni di dolcezza.
Manna-hatta, l’isola dalle molte colline, e un villaggio di tepee vicino al fiume. Chissà se gli indiani Algonchini mangiavano i dolci tra le tende nel West Village, chissà se anche per loro la primavera portava alberi dai fiori bianchi, tantissimi, a creare lente e candide gallerie. Chissà se conoscevano i cupcakes. Oggi la High Line, sospesa su una nuvola di fiori e rotaie silenziose, ti porta da Chelsea fino ai confini del Greenwich: puoi inseguire pallidi raggi di sole con un cup di Eleni’s del Chelsea Market, grossi e grassi batuffoli, a volte troppo colorati, ma facili e sufficientemente leggeri.
Puoi continuare da Magnolia Bakery, troppo indaffarata con le code, che ti lascerà sospirare davanti al suo laboratorio, arruffato come la stanza di una bambina disordinata, pieno di torte e cupcakes gonfi ed eterei, colorati nei toni pastello delle foto Ferrania, delle diafanìe degli anni cinquanta. Gli stessi colori che ti passano davanti agli occhi zigzagando lungo le strade finalmente oblique, incartate come un regalo, intorno a Bleecker Street.
C’è poi l’erba del vicino che è sempre più verde, come la dolcezza che è sempre più dolce, per non dire della bellezza. L’erba e la dolcezza parlano francese, e dio solo sa quanto di francese si sarà bevuto, mangiato, sognato in quel grumo di grattacieli piantati sul basalto più duro di Midtown alla fine degli anni venti, urlo disperato di forza americana. Riferimenti ancora presenti, equazioni ducassiane che si confrontano con un’idea di classe piuttosto che di bellezza. Allora basta appiccicare il naso sulla vetrina di Ladurée, nell’Upper East Side, attraversare di corsa Central Park lungo Sheap Meadows, per tuffarsi nei macarons della Bouchon Bakery, a Columbus Circle. Pur cedendo al vezzo di prenderli nelle sfumature del logo della casa, dal verde pallido del pistacchio alle varie tonalità del caffè e del cioccolato, non sarà difficile affermare che sono i più buoni mai assaggiati, morbidi, delicatamente compatti, senza un clic di croccantezza, senza un cenno di gommosità. Perché non ho fatto subito il confronto con Ladurée? Perché sono perfido anche con me stesso e rifuggo l’eccesso di leziosità.
Bryant Park o della dolcezza inattesa, quasi un giardino all’italiana contrappuntato di tulipani colorati, che resiste all’aggressione dei grattacieli, allo sbrilluccichìo dei vetri, con indifferenza sonnacchiosa, quasi indulgente verso intollerabili pensieri di solitudine tra la Quinta e la Sesta. Contraddizione urbanistica, buco nell’anima abituata all’affanno, le scalinate e gli archi ombrosi della Library ad offrire sostegno morale. Anche la Candy Bar Pie del Momofuku Milk Bar è sorprendente: perché è bassa, in un mondo di torte di Nonna Papera alte un palmo, perché è un concentrato di dolcezza, con caramello e torroncino affogati nel burro d’arachidi e racchiusi tra cioccolato di diversa consistenza, perché per ogni fetta nasconde un pretzel secco e piccolino come le sedie pieghevoli del piccolo parco, perchè alla fine è magicamente salata, di quella sapidità golosa, ruffiana che dà dipendenza. Che ferisce il cuore.
E poi scende la pioggia, che fatica a essere battente, come se dopo tutte quelle asperità puntute fosse già stanca prima di arrivare a terra: è scesa a lucidare i marciapiedi eleganti, gli ombrelli rossi, le ringhiere barocche, le piante confuse e diffuse del Gramercy Park. Colori sovrapposti, macchie dal giallo al lilla, in una dolcezza impressonista. Alzi gli occhi dal bancone della Gramercy Tavern e ritrovi tutti quei colori a far corona ai legni, nell’angolo un grande fascio di rami fioriti di giallo, davanti a te le sfumature coloniali del plum cake al cocco e macadamia, cioccolato bianco caramellato e gelato al caffè. E’ pomeriggio, un dolce può bastare, ma, non richiesti, hanno disposto piattini e posate per due, ad assecondare una dolce complicità, una serenità rilassata, lungo i tornanti di infinite consistenze, lungo i tormenti di sabbiose tostature, alle quali facevano eco la morbida amaritudine, venata di cioccolato e caffè, di una Mary’s Maple Porter e la sfrizzolante mentosità di un Fever Tree Ginger Swizzle. E mentre tutto intorno era pioggia, ancora pioggia e finalmente niente Francia, avresti pregato che non smettesse mai.
Ci sarà un motivo se la vecchia e austera Barnes & Noble osserva e protegge le bancarelle sgarrupate e le tende da festa di paese del Greenmarket di Union Square. Forse perché c’è amore tra quelle ceste di germogli di rucola e broccoli, tra le patate dalle forme più bizzarre, tra le lane più calde e ruvidamente confortevoli. Forse perché anche le torte sembrano fatte da qualche vecchina persa nel New Jersey, una Apple Pie di quelle con la teglia rovente che esce dal forno, e la nonna che soffia e sbuffa. Anche questo è amore, anche questo è dolcezza. Come quel Brownie incellofanato solo soletto su una marea di fette di Pumpkin Ginger Bread: si vede che oggi era il giorno dei Brownies. E ho preso l’ultimo, due dollari e mezzo di dolcezza, seria e contenuta, una ganache dal morso denso e le noci a dare croccantezza e sapidità. Mi sono incamminato sgranocchiando lungo University Street, tra bandiere viola, verdurai variopinti e gelaterie che raccontavano di piccoli amori, assorto e sicuro tra il fruscio delle biciclette, fino ai piedi delle scale e delle colonne di ghisa di Soho, a sud di Houston.
E alla fine c’è quella dolcezza che si tinge di rosa, come Manhattan una sera, vista dall’Empire. Ma è una dolcezza vagamente malinconica, come se, affiorando, si lasciasse andare all’abbraccio di una inattesa e malcelata nostalgia.
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