CARBONE
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: nd
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno
Beh, rileggendo questa scheda devo dire che di riffa e di raffa altri dieci anni li ho vissuti per confermare che ci avevo visto giusto. Ne sono cambiate di cose dal momento in cui abbiamo recensito per la prima volta il vino dei fratelli Carbone. Per esempio per la prima volta mi sono goduto un mese intero, o quasi, nel mio Cilento tra i miei libri, legiucchiando, telefonando, spiluccanto e cercando invano di mettere ordine in cantina. Quando ho saputo di un piatto di fusilli in arrivo mi sono diretto subito per l’Aglianico del Vulture e ho trovato questa vecchia bottiglia. Stappo ed è tutto perfetto, basta annasare un po’ il vino senza neanche versarlo nel bicchiere. Le condizioni con cui sipresenta a questo appuntamento sono grandiose: fresco e pimpante, la beva è più veloce, legno e frutto sono perfettamente integrati dopo dodici anni. Il vino ha qualche nota ruffiana all’inizio della beva ma poi procede spedito sapido e amaro con una piacevole nota fumé. Lungo il sorso, bello il finale, gratificante l’accoppiamento.
Che dire, noi ci siamo e anche i due fratelli, che adesso sono ben cresciuti facendo delle scelte precise, tipo eliminare i vini base e concentrarsi sulle bottiglie più importanti. Ben fatto, purché si dia sempre tempo al tempo.
Alè
Scheda del 16 maggio 2009. Sara e Luca Carbone portano avanti il progetto di non poco conto: trasformare se stessi. Da produttori di uve conferitori, e che uve in questi vigneti comprati dal papà sulle colline attorno Melfi nella metà degli anni ’70, a produttori di vino. Che non è la stessa cosa, non è la stessa cosa ripete Guccini ad Augusto Daolio, ma che molti contadini avrebbero fatto bene a tenere in mente in questo primo spaventoso decennio del nuovo millennio.
Il rapporto si sviluppa con Sergio Paternoster la cui azienda di famiglia ha acquistato le uve di fiano utilizzato per il Bianco di Corte piaciuto a Marina nella piccola gara di Paestum, era l’ultima partita perché il 2008 è servita per la prima uscita aziendale. I pezzi del motore ci sono tutti: li abbiamo visitati, pensate un po’, il 24 dicembre scorso sotto la neve e il freddo: i vigneti a discreta altezza sulla terra nera, la cantina in costruzione di cui abbiamo visto lo scheletro, le cantine in pietra al centro della città federiciana dominata dal Castello. Mi dicono a Guildford: valuta solo il vino nel bicchiere.
Ma questo per un italiano e un francese è impossibile, ci cadranno solo per necessità di mercato: il vino è anzitutto espressione del territorio dove nasce, poi ne deve essere una buona e comunicabile, commerciabile, interpretazione.
Pigliamo lo Stupor 2006: non è facile. Ma chi ha bevuto molto non può non amarlo: la crosta di legno (un po’ di liquirizia e note balsamiche) e di frutta (amarene) svanisce presto facendosi da parte e lasciando il campo a piacevoli note verdi e terrose, combinazione di annata piovosa e di tecniche di concentrazione in vigna, che si ritrovano tutte nel palato. In bocca il vino dialoga solo ed esclusivamente con questo aspetto del naso, il bicchiere è elastico, tonificato dalla freschezza in grado di reggere oltre 14 gradi di alcol senza nulla togliere alla bevibilità.
Dunque è un vino life style, sicuramente superiore al 2005 che pure è molto buono, ha una discreta complessità e una stratosferica acidità non invadente ma ricca di carattere, come i due boys Carbone. Il vino va giudicato solo per quel che dice nel bicchiere? Può darsi, ma la vita gastronomica di un individuo non è un circuito di Formula Uno dove tutti sono al servizio dell’auto che non ha altri limiti che l’attrito con l’aria e con il terreno: i pasti, il cibo, quello che interessa di più la gente semplice quanto i gurmet, hanno bisogno di vino abbinabile, proprio come le auto si devono adattare alle situazioni: la mia Skoda a metano farebbe mangiare la polvere alla Ferrari del grande Lorenzo Bandini nelle strade di Napoli o anche sull’autostrada Pompei-Napoli. E, dunque, che cazzata è mai questa?
Io bevo il mio Stupor nel cuore del Cilento con un agnello, in questo momento: è l’abbinamento funziona. Poi lo ribevo da solo e la bocca è piacevolmente impellicolata dalle note dolci della frutta mentre il finale, sì, in fondo alla lingua, quasi in gola, è amarognolo e tagliente, quasi metallico, ferroso. Questo ferro poi me lo ritrovo al centro della lingua e diventa la nota dominante della beva.
Insomma: una gran bel vino. Non ha l’eleganza sottile, ma ha sicuramente veracità terragna e tanto ancora da raccontare nei prossimi anni. Vorrei viverne almeno altri dieci per vedere come sarà questa 2006.
Ah, già: la 2006. Non siamo ai livelli della 1999, quando il mondo del vino scontava ancora una certa innocenza, ma a noi pare superiore per mano di un Dio che ha scrosciato buona pioggia, anche alla 2004 dove pure la natura ha riequilibrato le esagerazioni umane.
L’Aglianico ha un grande vantaggio, secondo noi pari al nebbiolo e meglio del sangiovese: dialoga a lungo con il tempo, ove non è astrazione di agostiniana memoria, ma polifenoli e antociani che fanno i conti con l’ossidazione evolvendosi o decandendo in maniera definitiva.
Noi speriamo che l’impresa di questi due ragazzi riesca bene. Ma devono crederci fino in fondo. Fino a rimettere in discussione le loro vite.
C’è anche un po’ di china.
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