Quale futuro per l’Aglianico? Faticare sodo a tavola
Abbiamo deciso di rimetterci a studiare. Sì, a fare verifiche sul campo prima di sciorinare quadri sinottici pieni di certezze che si rivelano alla fine utopici sogni. Come quello della esistenza di un distretto enologico irpino, illusione felicemente accompagnata per quindici anni e poi dissolta in breve tempo dalla decisione di eliminare l’anteprima delle due docg bianche, BianchIrpinia, e poi la Fiera Enologica di Taurasi.
Ora le uve sono scese a 0,50, i produttori iniziano a chiedersi cosa mai abbiano fatto i loro politici locali per mantenerle ben quotate. Niente, perché quasi nessuno di loro si è accorto del fatto che l’Irpinia era diventata una piccola superpotenza vitivinicola ed erano distratti dalle licenze edilizie, dalla distruzione dell’ambiente e dalle elezioni che fanno ogni anno. Ma forse se cala il prezzo e i vigneti iniziano ad essere abbandonati è anche colpa di chi non ha fatto sistema e di chi ha boicottato queste iniziative. Così come l’apprezzamento dei terreni degli anni ’90 era frutto della convinzione di qualcosa di importante che sarebbe successo. In realtà quel che di più significativo c’è stato è che quelli che producevano rosso hanno iniziato a fare bianchi mentre chi era bianchista si è dedicato al Taurasi e all’Aglianico. Ah, sì, quasi tutti poi producono Falanghina del Sannio.
Dunque, scarsa specializzazione produttiva e scadente capacità di proporsi all’esterno come territorio. Chiaro che il mercato si ferma e guarda altrove, dove magari c’è più convenienza.
Allora abbiamo deciso di rimetterci a studiare. Vediamo di capire. Si parla della mitica annata 1999, quante volte lo avrete letto qui in questo sito o nella rubrica sul Mattino? Bene, abbiamo deciso di fare una prova e ciascuno di noi ha messo un po’ di bottiglie conservate negli anni, alla maggior parte dei produttori è inutile chiederlo perché prima ignoravano il significato della parola archivio storico e quasi nessuno ha conservato la sua memoria da spendere in occasioni come queste dove si costruisce invece l’immagine aziendale in maniera molto più solida di quanto non abbiano fatto i soldi buttati al vento in depliant costosi e inutili nell’era di internet.
Venti, diventate diciotto perché una è il Salae Domini di Caggiano e una sa di tappo e non ce n’è altra atta a sostituirla.
La premessa è che la responsabilità della tenuta di queste bottiglie è nostra e che dunque non sempre hanno goduto del miglior trattamento possibile. Ma non essendo questo un concorso, bensì un esame, la precisazione è assolutamente ininfluente ai fini di questo articolo. La facciamo solo per coloro che ancora pensano che il loro vino sia migliore di quello del vicino.
Ah, sì, il gioco di cosa succedeva nel 1999. Ecco il link dove saprete tutto. Io lavoravo tosto come capo della redazione di Salerno alle prese ogni giorno con minacce di querele e politici di infima cifra. Inferno di mediocrità da cui per fortuna sono libero dal 2001.
La stagione, invece, la prendiamo dal sito di Anteprima Taurasi: <Con la presentazione ufficiale dell’annata 1999, si svolge, nel dicembre del 2002 la prima edizione di Anteprima Taurasi. Il battesimo è subito esaltante: il millesimo da annoverare tra quelli dal lungo invecchiamento, complice un’estate tutto sommato fresca e le notevoli escursioni termiche di settembre e di ottobre. I Taurasi del 1999, nelle migliori versioni, sono vini dotati di buona struttura ma ancora piuttosto duri e chiusi. Sono vini estremamente fedeli ai terroir di provenienza, tannici e molto freschi, che col tempo potrebbero esprimersi con eleganza e profondità>.
Ci si vede con gli amici di sempre a La Maschera di Avellino, il bel covo di Paolo De Cristofaro, responsabile Gambero Rosso Campania e Lello Del Franco, sommelier organizzatore di tutte le Anteprime: oltre loro, Giovanni Ascione di Bibenda DuemilaVini, Antonio Del Franco presidente Ais Campania, Mauro Erro, enotecario e blogger con cui abbiamo organizzato Le Piccole Vigne, e naturalmente Gino Oliviero, patròn del locale. Sette, il numero perfetto per il mondo ellenistico-romano.
La degustazione, coperta con tre batterie da sei, è iniziata alle 16, come previsto e si è protratta, tra una discussione e l’altra fino, sino a poco dopo le 21. In estrema sintesi, ecco i risultati concettualmente fissati e su cui tutti ci siamo ritrovati.
1-Effettivamente la 1999 è stata annata interessante.
2-Però è stata difficile, molte aziende erano quasi alla prima esperienza e non tutte sono state capaci di interpretarla. Paradossalmente i bicchieri più compiuti e rotondi erano quelli della parte bassa dell’areale mentre le zone alte sono apparse in affanno di interpretazione.
3-Più in generale, sicuramente l’aglianico è uva di grande invecchiamento. Non un filo di ossidazione in nessuno dei campioni a dieci anni dalla vendemmia, ovunque freschezza a gogò, tannini spesso non risolti, a volte irrimediabilmente scissi. Molti campioni sono destinati a durante ancora a lungo nel tempo.
Ed ecco le mie osservazioni aggiuntive, un po’ impegnative per farle divenire espressione di gruppo ma su cui chi più chi meno concordava.
1-Che l’Aglianico sia uva longeva non significa, automaticamente, che sia anche uva per vini da emozioni. Questo è ancora tutto da dimostrare perché sinora l’unico palpito quando si aprono vecchie bottiglie è costituito dal fatto che…sono vecchie bottiglie integre!
2-L’Aglianico si conferma invece vino da abbinamento, vino operaio da far lavorare sul cibo. In questo senso, e in questo momento, è sicuramente life style. L’Aglianico pronto non può esistere e per trasformarlo in un bicchiere da wine bar deve essere annacquato con primitivo o merlot. La bellezza dell’Aglianico invece è nella sua capacità di accompagnare la grande gastronomia partenopea e quella contadina dell’Appenino Meridionale. E secondo me questo è il suo futuro commerciale se si ha l’ambizione di rispettare il respiro del frutto.
Nel merito della degustazione, sono ancora patrimonio comune di tutti queste considerazioni.
1-Tutte le bottiglie erano a posto, integre, fresche. Una decina erano sicuramente buone, due o tre molto buone. Ma nessuna ha emozionato. Non è uscito il grande vino.
2-Le bottiglie stressate da interventi enologici invasivi sono in genere sicuramente più monocordi e stucchevoli. Partono prima ma si fermano per strada e vengono superate dalle tartarughine trattate con meno concentrazioni e surmaturazioni. L’uso del legno grande o della barrique non è comunque la discriminante tra stili tradizionali e internazionali, quanto piuttosto una banalizzazione del tema.
3-Attesi disastri per la calda 2000, delusioni da una 2001 sempre più monocorde. Incrociando condizioni climatiche e maturità enologica accumulata dalla esperienza collettiva del territorio, la prossima annata di riferimento come lo è stata la 1999 è la 2004. Arrivederci dunque al 2014 per il decennale, nel frattempo si procederà con gli altri millesimi.
Ora la disamina delle bottiglie soggettive.
La mia battuta è: il successo di Antico Borgo inizia a far riflettere. Chi? Sì la piccola azienda di Raffaele Inglese, enologo taurasino, appena tre ettari. E’ stato questo il Taurasi che ha convinto tutti. Era il quarto della prima batteria: tradizionale, attacca con un buon impianto olfattivo di frutta rossa, petali di rosa secchi, appena un po’ di mentolato. Perfetta la corrispondenza in bocca con tannini piallati dal tempo, ben presenti ma vellutati, morbidi. Freschezza, lunghezza, equilibrio in tutte le fasi del dialogo, dalla vista sino alla botta finale. Un vino molto buono.
Ed ecco ora la successione con le mie valutazioni:
1-Tenuta Ponte. Traditional. Buon approccio olfattivo, penalizzato da una chiusura eccessivamente brusca che lascia asciutto il palato.
@@1/2
2-Contrade di Taurasi. Piace ma non esalta. Un compito ben eseguito. La dimostrazione di come sia importate la degustazione coperta.
@@@1/2
3-Caggiano. Forse una bottiglia sfortunata. Solo freschezza e percorso eccessivamente lineare, banale.
@
4-Antico Borgo
@@@@+
5-Piano D’Angelo. Questo marchio non c’è più. Tradizionale, più o meno con le stesse caratteristiche di Tenuta Ponte ma con un naso più elegante, fresco.
@@@1/2
6-Gmg Vinicola Taurasi. Riserva Il vino di Emiddio Di Placido si conferma sempre di ottimo livello, affidabile, pieno.
@@@1/2
7-Di Prisco. Un po’ modernista, concentrato, dolce. Poi riesce a distendersi grazie alla freschezza che risolve l’ingorgo iniziale e annunciato dal naso.
@@@1/2
8-Villa Raiano. Stessa impostazione, l’uso del legno rivela resina, mentolato, in bocca recupera eleganza. E’ sottile, fresco, lungo. Tannini risolti.
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9-Perillo. Anche questo come i due precedenti, si era avviato verso l’esibizione muscolare, poi rientra bene in bocca ed è gradevole.
@@@1/2
10-Urciuolo. Si può dire? Massì. Ha fatto solo acciaio. Fresco ma poco intenso e poco persistente, da abbinamento.
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11-Mastroberardino. Radici Riserva. Dolce, molta frutta, marmellata. Sentori di china e agrumi. Un po’ monocorde.
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12-Molettieri. Fresco ma concentrato, materico. Mi disturba il discorso monotematico della frutta, poi spunta una nota vegetale.
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13-Mastroberardino. Radici. Un equilibro raggiunto al naso e in bocca, buona lunghezza, note di legno con liquirizia ma contenute. Molto gradevole.
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14-Feudi di San Gregorio. Piano di Montevergine. Prevale la nota tostata che copre il frutto, un po’ scisso in bocca.
@1/2
15-Terredora. Fatica Contadina. Si presenta scisso, scostante, con un parziale recupero in bocca che però non ribalta l’impressione.
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16-I Capitani. Questo rosso si esprime sempre bene alla lunga distanza. In equilibrio, tannino morbido e integrato, vibrante freschezza, lungo e complesso.
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17-Feudi di San Gregorio. Selva dei Luoti. Predomina l’uso del legno con l’abbattimento di ogni complessità olfattiva. Buona freschezza e chiusura pulita.
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18-Casa dell’Orco. Resta integra la trama dell’acidità, ma attorno non c’è quasi nulla se non un ricordo fruttato, da raccontare.
@1/2
La serata continua, ovviamente, con infinite discussioni. Al tavolo si aggiungono, capitati per caso, Nadia Romano con il fidanzato Claudio dell’azienda Il Cancelliere, un must per chi vuole masticare Montemarano.
Ci vorranno almeno due o tre generazioni per costruire una realtà territoriale enologica degna di questo nome. A me piace pensare che abbiamo vissuto la fase pionieristica, quella dell’entusiasmo che porta talvolta a chiudere un occhio su ingenuità e piccole astuzie.
Ora è necessario il rigore. Lo stesso manifestato verso se stessi dalle persone che stavano a tavola che investono il loro tempo nel viaggio, nella conoscenza, nell’arricchimento culturale per vivere meglio in simbiosi con il territorio o, più semplicemente, per dare dignità a un tempo segnato dal cachet della D’Addario senza altri valori validi di essere discussi.
Non ho dubbio ormai: sono questi giovani maestri rurali gli unici veri intellettuali in circolazione nel Mezzogiorno. Sono gli unici, infatti, che hanno ripreso a studiare.
Letto, firmato e sottoscritto a ché resti memoria per chi ne vorrà fare tesoro.
Il resoconto di Paolo De Cristofaro le leggete qui
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