di Pasquale Carlo
La particolare diffusione del vitigno falanghina che si è registrata nel Sannio in questi ultimi decenni richiama alla mente la fiaba del ‘Brutto Anatroccolo’, scritta alla metà dell’Ottocento dal danese Hans Christian Andersen. Come il goffo anatroccolo “trasformatosi” in cigno, così le uve falanghina, poco amate nel passato, sono finite per diventare quelle più caratterizzanti lo scenario produttivo sannita e campano. Tanto da diventare anche la forza trainante del dossier ‘Sannio Falanghina’, grazie al quale i Comuni di Castelvenere, Guardia Sanframondi, Sant’Agata dei Goti, Solopaca e Torrecuso sono arrivati a fregiarsi del titolo ‘Città Europea del Vino 2019’ assegnato da Recevin, la rete che raggruppa ottocento Città del Vino di undici Paesi europei.
Questo vitigno antico ha rischiato di scomparire, salvato grazie all’attività del Comitato provinciale vitivinicolo sannita (CoProViSa), istituito nel 1976 su iniziativa della Camera di Commercio di Benevento. Al Comitato venne affidato il compito di valutare le attitudini alla produzione di vini di alcuni vitigni storici del Sannio: diciotto varietà di uve, che vennero vinificate in quattro cantine della provincia. Tra le uve più performanti emersero quelle del vitigno falanghina, lavorate nelle suggestive grotte di tufo del centro storico di Sant’Agata dei Goti dove operava Leonardo Mustilli. L’ingegnere, classe 1929, si era da poco trasferito nel Sannio insieme alla moglie Marilì. Un ritorno tra le terre dove fin dal Cinquecento avevano abitato i Mustilli, per rinnovare la tradizione familiare della coltivazione della vite. Colpito dalle caratteristiche del vino che ottenne da quella vinificazione sperimentale, decise nella vendemmia 1979 di dare vita al primo vino ottenuto esclusivamente da uve falanghina. Esattamente quaranta anni fa.
La diffusione del vitigno nel Sannio era allora relegata in poche e ristrette aree, tra cui la zona di Bonea, comune della vallata caudina. Tutto era dovuto alle sue caratteristiche, considerato che nel 1876 l’ampelografo Giuseppe Frojo non esitava a scrivere che «col sistema ordinariamente seguito il vino che si ricava da quest’uva è duro e mancante di aroma». Lo studioso indicava anche un metodo di vinificazione per ottenere un prodotto di eccellenza: «Raccolta l’uva ben matura si lascia appassire al sole o anche all’ombra per quattro o cinque giorni, poi si pigia, il mosto si mette in botti, le vinacce si sottopongono al torchio ed il liquido che si ricava si mescola al primo, vi si aggiunge poi l’uno e mezzo per cento di alcool, in modo però che quest’alcool galleggi […] Nell’autunno che segue si travasa di nuovo, se lo si voglia conservare ancora in botti, o si mette in bottiglie. Questo vino è di bel colore paglierino ed ha un profumo che non si sarebbe mai supposto potesse essere prodotto dall’uva che si è adoperata. Inoltre esso è serbevole e si migliora col tempo, come l’esperienza di cinque anni mi ha mostrato». Il metodo decantato dal Frojo venne riproposto nella vendemmia 2003 proprio dall’azienda Mustilli, con una bottiglia commemorativa e una pubblicazione curata dal giornalista Luciano Pignataro e dall’ampelografa Antonella Monaco.
Quanto sperimentato dall’ampelografo ottocentesco esaltava alcune tipicità del vitigno riprese circa mezzo secolo dopo da Edoardo Ottavi e Arturo Marescalchi che, nel ‘Vademecum del commerciante di uve e di vini d’Italia’ del 1903, rimarcavano come le uve falanghine coltivate nell’area di Sessa e Gaeta davano vini liquorosi. Nell’immediato secondo dopoguerra, Mirko Ferrarese, nella sua ‘Enologia pratica e moderna’ (1948), inseriva i vini ottenuti da uve falanghina tra quelli «alcolici secchi» segnati «dal 15 al 18° di alcole senza traccia di zucchero», con un’acidità che si aggirava «sui 4/7°/100». Prodotti ideali per il taglio dei vini più deboli e – qualche decennio dopo – per la produzione negli stabilimenti del Nord di ottimi vermouth, come più volte ricordato dall’enologo Riccardo Cotarella.
Questo vitigno venne iscritto al Registro nazionale delle varietà di viti nel 1970; nello stesso anno venne riconosciuto come “raccomandato”, solo per la provincia di Napoli, dal Regolamento comunitario 2005/70. Si trattava del biotipo flegreo, oggi coltivato nelle campagne che circondano Pozzuoli e gli altri centri disseminati in una delle aree archeologiche più affascinanti del mondo.
La storia attuale di questo vitigno nel Sannio parte ufficialmente nel 1981, con il Regolamento della Comunità Europea 3800/81, che riconosceva le uve falanghina raccomandate in provincia di Benevento. Bisognerà attendere oltre dieci vendemmie per vedere la tipologia ‘Falanghina’ riconosciuta nel disciplinare di produzione della denominazione di origine ‘Solopaca’ (che risaliva al lontano 1973). Correva l’anno 1992. Nell’anno che seguì arrivarono le denominazioni di origine ‘Guardiolo’ o ‘Guardia Sanframondi’ e ‘Sant’Agata dei Goti’ e le modifiche al disciplinare della ‘Taburno’ che prevedevano la stessa tipologia ‘Falanghina’ (impiegando un minimo dell’85% di uve falanghina). Quattro anni dopo, nel 1997, la denominazione di origine ‘Sannio’ ampliò quanto previsto dai precedenti disciplinari all’intero territorio della provincia di Benevento.
Sono gli anni in cui la falanghina sannita viene “sdoganata”. In questa fase l’artefice principale fu la Cantina del Taburno di Foglianise, voluta e fondata dal Consorzio Agrario di Benevento. Le bottiglie renane prodotte sotto la regia di Angelo Pizzi, l’enologo giunto al timone dell’azienda nel 1982 dopo una bella esperienza maturata in terra inglese, conquistano le tavole di Napoli e Roma. Nel 2004, poi, giunge anche la pubblicazione scientifica curata dal professore Luigi Moio (‘Colori, odori ed enologia della Falanghina’, anno 2004), che ne traccia dettagliatamente il profilo dell’aroma e del gusto, mostrando un vino dall’identikit veramente sorprendente, ben lontano dall’anonimato in cui lo stesso era stato emarginato.
Cambia così completamente il modo con cui addetti ai lavori e consumatori si approcciano ai vini Falanghina. Occhi, naso e palato completamente nuovi, che ben presto producono la messa al bando del concetto che bollava questo vino semplicemente con gli aggettivi “erbaceo” e “acido”. Gli esami olfattometrici e le gas-cromatografie prima e il naso dei consumatori poi finiscono per essere conquistati dal fruttato di banana, mela verde, ananas, pesce, agrumi, dal floreale di ginestra e dalle note di miele che i vini Falanghina sprigionano nella loro fase di gioventù; dall’albicocca secca, dal floreale passito, dalle erbe aromatiche del Mediterraneo che questi assumono a circa due anni dalla vendemmia. Sbalorditi dalla poliedricità del vitigno in cantina, ideale anche per produrre vini di estrema longevità.
Il brutto anatroccolo è ormai diventato cigno e sa di poter contare su belle ali robuste, che gli consentono di spiccare il volo. Ed è quello che succede con la grande svolta impressa nel 2011. Il Sannio Consorzio tutela vini (allora identificato con il nome Samnium) porta a termine il ridisegno delle denominazioni sannite, con l’arrivo della Docg dedicata all’Aglianico del Taburno e le nuove denominazioni ‘Sannio’ e ‘Falanghina del Sannio’. È questo il momento in cui il nome del vitigno viene ancorato a quello del territorio sannita.
Oggi il vitigno falanghina è diventato quello maggiormente coltivato nella provincia di Benevento. Una coltivazione che è arrivata a sfiorare i tremila ettari, che vede il Comune di Guardia Sanframondi vantare la superficie più consistente, mentre realtà come Benevento e soprattutto Ponte si segnalano con le più alti percentuali di superficie vitata coltivata a uve falanghina. Sei milioni sono state le bottiglie certificate come ‘Falanghina del Sannio Dop’ nel 2018; altrettanto quelle fregiate con il marchio Igp (‘Campania’, ma soprattutto ‘Beneventano’). Nel Sannio si coltivano oltre l’80% della produzione totale di uve falanghina, diffuse in tutte le province campane e approdate anche in altre regioni del Centro-Sud: Molise, Puglia, Lazio, Abruzzo, Sardegna. Caratteristica che contraddistingue questo vitigno a bacca bianca come uno dei più interessanti nello scenario del Bel Paese.
Questa la parabola di un successo che ha proiettato il cuore del Sannio enologico – quel pentagono racchiuso tra le cinque realtà di ‘Sannio Falanghina’, area in cui si produce circa il 40% del vino campano – tra le zone vitivinicole di eccellenza, tanto da vedersi riconoscere “Capitale europea del vino” in questo nevralgico 2019.
Articolo pubblicato sulla rivista ‘Terre del Vino’, edita dall’Associazione nazionale delle Città del Vino – Nuova serie, n. 15, marzo-aprile 2019
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